Jordi Évole è un giornalista spagnolo, conduttore di uno dei programmi di inchiesta più seguiti in Spagna. La trasmissione che conduce si chiama “Salvados” e in un paese che sta vivendo una profonda crisi economica, diventa una sorta di bussola per orientarsi nel quotidiano.
Domenica 16 marzo l’hashtag di “Salvados” era #drogasSA perché il tema della trasmissione è stato il narcotraffico e il ruolo che la Spagna ha come porta di accesso per le droghe provenienti dal Sudamerica in Europa. Con Jordi Évole, qualche giorno prima, avevamo registrato un’intervista su questo argomento. Una sorta di corsa a ostacoli perché non è facile spiegare a un paese che non è il tuo, l’entità di un fenomeno che lo riguarda. Come puoi dire che la Spagna è la porta del narcotraffico e che le banche spagnole siano tenute a galla dai capitali criminali? Come è possibile che su questi temi tu ne sappia più di noi che qui ci viviamo?
Temevo che le mie parole avrebbero generato le stesse reazioni indignate di quella parte di Italia che fatica a credere che le mafie siano ormai di casa ovunque. Ma non è andata così. Ho seguito la trasmissione in streaming e attraverso Twitter, e le reazioni sono state incredibili. Intanto la cosa che più di tutte mi ha stupito è che il mio nome è entrato nei trend topic spagnoli e questo significa una sola cosa: l’argomento di cui parlavamo ha riempito un vuoto, ha dato risposte, ha spiegato a chi ha avuto la pazienza di seguire fino in fondo la trasmissione, come sia possibile che in Spagna ci sia un tesoro che si percepisce, che addirittura si vede e si tocca, ma di cui nessuno può beneficiare, se non i broker di coca, cioè chi è parte integrante di questo meccanismo. A tutto questo esiste un’unica risposta possibile: legalizzazione.
Ma il peccato originale che sconta qualunque discussione su questo tema è che, nel tentativo di superare le difficilissime questioni morali che pone, si prova sempre a darle un taglio utilitaristico che apre necessariamente altre questioni irrisolte. Mi spiego meglio: la legalizzazione delle droghe, ma anche - come ha recentemente proposto per la prima volta l’Onu - la depenalizzazione del loro consumo, avrebbero come ricaduta immediata una diminuzione dell’affollamento delle carceri, che in Italia è una piaga di dimensioni apocalittiche.
Ma qui si apre un’altra discussione sulla quale le generalizzazioni o peggio le semplificazioni hanno purtroppo sempre la meglio. “Chi si trova in carcere è lì perché ha sbagliato”, “le carceri non sono alberghi a quattro stelle” e non vi tedio oltre. Il punto fondamentale però è un altro. Chi fa uso di droghe non è un criminale, ma una persona che vive un disagio: va curata con misure diverse dalla detenzione. Inoltre, studiando i dati delle politiche proibizioniste attuate fino a questo momento, si è chiaramente dimostrata la loro inutilità o peggio ancora, il loro rovinoso fallimento. Infatti la tendenza mondiale è senza dubbio alcuno quella della depenalizzazione e della legalizzazione. Sta avvenendo ovunque, dal Canada all’Australia, dal Brasile al Cile. Fino ad arrivare all’Uruguay che in questo momento costituisce l’avanguardia.
Questa è la tendenza mondiale mentre in Italia il ministro della Salute Beatrice Lorenzin reintroduce per decreto - lamentando “un vuoto normativo” che è incapace di riempire altrimenti - le tabelle sugli stupefacenti previste dalla Fini-Giovanardi spazzate via solo qualche settimana fa della sentenza della Corte Costituzionale. Io credo che sia legittimo domandarci di chi sia rappresentativo questo ministro, quali interessi curi, dal momento che evidentemente non cura quelli di noi cittadini. E soprattutto mi auguro che la sua imposizione nell’attuale governo sia rivista in occasione delle prossime elezioni europee, quando il suo partito di riferimento, presumibilmente, conoscerà un ridimensionamento.
Non possiamo permettere che l’Italia vada nella direzione opposta a quella del resto del mondo. Non possiamo permetterci di voltare le spalle a decenni di studi, alla storia, al progresso, alla modernità, ai diritti civili e umani. Sì, perché questa è proprio una questione di civiltà.
FONTE: http://espresso.repubblica.it/