domenica 18 luglio 2010

Nichi e non più Nichi: futuristi e passatisti nella sinistra di oggi

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Leggo del congresso delle Fabbriche di Nichi: un grande happening in cui il governatore della Puglia lancia la sua OPA sul centrosinistra, impiegando l’arma nuova della comunicazione alla pari, del workshop, del meeting partecipativo. Lui, Nichi Vendola, rompe la stasi del centrosinistra con le parole del cambiamento. Qualcuno dubita che siano soltanto parole. A cominciare dal quotidiano Europa, dove ricordano che la similitudine voluta da Nichi, le Fabbriche come il Vulcano Islandese, che sospendono il normale divenire della politica italiana, sempre più virata verso il giudiziario, e obbligano tutti a un momento di riflessione, è una sorta di boomerang poiché i vulcani si spengono e soprattutto riposano per anni, se non per secoli.
Vendola piace. La sua parola è libera e sembra nuova. Che abisso con il segretario di PRC, Paolo Ferrero. Ferrero pare una copia di un funzionario di partito degli anni ’50. Starebbe bene al fianco di Togliatti, vincolato com’è a un mondo di dualismi, di retorica anticapitalista, di falce e martello e di grano nel pugno. Roba da neorealismo sovietico. Vendola no. Vendola parla come un Nick Clegg italiano. E’ fin imbarazzante perché dice le stesse cose che pensiamo tutti, sul PD, sull’opposizione che non ha spina dorsale, né idee, né identità. Dice che la sinistra non può vivere sulla sola contrapposizione al berlusconismo, poiché altrimenti demanda la sua medesima esistenza all’esistenza dell’altro a cui si oppone. No, ci vuole altro. bisogna andare oltre (lo si diceva già prima, a chiare lettere, sul blog di Civati).
Poi capita di scorgere una pagina web de Il Manifesto e trovi l’intervista a Luca Casarini (ex disobbediente del Nord Est, così è descritto), ad Andrea “Tarzan” Alzetta di Action (unico consigliere comunale di sinistra eletto a Roma) e a Francesco Raparelli del collettivo Esc.

Sebbene di Alzetta si possano condividere la denuncia della condizione di una intera generazione di lavoratori senza welfare e la descrizione dell’evento come di un interessante tentivo di collegamento fra “piazza e web”, poi leggendo Casarin si inizia ad avere un senso di non so ché, un senso di vecchio, di indescrivibilmente vecchio:
La ripresa del conflitto sociale è necessaria. Non si può fare politica senza un’idea del conflitto e dello scontro col vecchio che apra al nuovo. Ci hanno detto che eravamo fissati con le “zone rosse” ma come dimostra la vicenda dei terremotati dell’Aquila c’è sempre una zona rossa da attraversare per costruire una democrazia sociale vera. La cooperazione di cui qui si parla è un pensiero debole o è già in potenza una società diversa? Se mi dicono che ti lasciano cambiare le cose non ci credo. E non basta un grande narratore (Il Manifesto).
Ecco, io questa idea del conflitto proprio non la capisco. Proprio non mi riesce di immaginare una società che procede verso il nuovo attraverso il conflitto. Credo che ci vogliano idee, e coraggio. Mandela, giusto per fare un esempio – e qui mi fermo – non ha avuto bisogno di rispondere al conflitto con il conflitto: è riuscito a cambiare un paese – sebbene la transizione non si possa dire compiuta – attraverso il suo corpo, attraverso il suo dolore – e non quello degli altri – attraverso la sofferenza e la prigionia. Non mettendosi a capo di un popolo, ma lasciando che il popolo lo scegliesse come capo. Ebbene, se la nuova epoca deve promanare dal conflitto, allora sarò una nuova epoca di conflitto. Qui, in questo paese, c’è bisogno di buoni esempi. Di uomini coraggiosi. Che abbiano il carisma ma non la brama di potenza. Qualcuno che, attraverso la parola, evochi un futuro migliore.
Qui c’è bisogno di immaginazione.

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