lunedì 30 agosto 2010

Sakineh, lapidazione sospesa. Ma il suo destino rimane incerto

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di Valeria Nevadini


ROMA - Il suo nome è diventato, in poco tempo, tristemente noto all’opinione pubblica internazionale. E altrettanto velocemente ha assunto su di sé la proiezione simbolica di una lotta per i diritti delle donne iraniane e per un sistema di giustizia che contempli processi equi e adeguate misure di difesa. Sakineh Mohammadi-Ashtiani, condannata a morte per lapidazione da un tribunale islamico con l’accusa di adulterio e omicidio, attende l’esecuzione della sentenza nel carcere di Tabriz, dove ad essere rinchiuse nel braccio della morte vi sono oltre 200 persone. Donne, adolescenti e omosessuali il grosso dei detenuti. 
Per il momento la sentenza di morte è stata sospesa, secondo quanto riferito da un portavoce del governo iraniano. Sembra, infatti, che sia in atto un riesame del verdetto finale. Procedura che, in ogni caso, potrebbe portare semplicemente alla sostituzione della pena capitale prevista: non più lapidazione, ma impiccagione. La corsa disperata contro il tempo continua e le sorti della donna, madre di due figli, rimangono tragicamente incerte.


La campagna di sensibilizzazione internazionale non si arresta e annovera un appello in suo favore, firmato da oltre 90mila persone, e l’impegno costante delle organizzazioni umanitarie, degli attivisti e degli organi di stampa internazionali. Probabilmente proprio lo scalpore e l’indignazione suscitati dal suo caso sono all’origine dell’apparente e parziale dietrofront  del regime di Teheran.

Le prime ad organizzare un sit – in di protesta in onore di Sakineh sono state le associazioni femministe francesi che, sotto il sole cocente di mezzogiorno, hanno mobilitato, per le strade di Parigi, circa un migliaio di persone per chiedere di fermare il conto alla rovescia che pende sul suo destino. Il suo volto chiaro, incorniciato dal velo nero, campeggia su numerosi cartelli di protesta. I suoi occhi, scuri e profondi, sembrano osservare gli slogan pronunciati dagli attivisti. "Questa donna è il simbolo di un certo relativismo che sta uccidendo la cultura dei diritti umani - spiega Annie Sugier, presidente della Ligue International des Femmes -  Sakineh non è lontana geograficamente come sembra, la sua situazione ci tocca direttamente. Basti pensare - continua la militante femminista - che proprio qualche mese fa l'Iran è stato ammesso nella commissione per i diritti delle donne dell'Onu".
Il corteo prosegue la sua marcia per i diritti umani e approda all’ambasciata iraniana dove ad attenderlo c’è un cordone di poliziotti, che di fatto blocca il suo lento avanzare. La notizia su una possibile sospensione della pena capitale rincuora solo per pochi minuti, appena il tempo di capire che dietro quelle formule vaghe usate dal regime di Teheran si potrebbero celare insidie di altra natura. La sensazione palpabile è che il problema sia ancora molto lontano dall’essere risolto, non bastando una semplice sospensione temporale ad evitare l’inevitabile. Il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ha chiesto all'Alto rappresentante dell'Unione Europea, Catherine Ashton, che ci sia un impegno comune dell'Europa, minacciando nuove sanzioni contro l'Iran. Altre manifestazioni sono previste a Bruxelles e, il 2 settembre, in Italia così come annunciato dalla Federazione dei Verdi che, tramite Angelo Bonelli, annuncia una protesta davanti alla sede dell’ambasciata iraniana. Anche il ministro degli esteri Franco Frattini, dal canto suo, sta seguendo da vicino la vicenda e la sua prima mossa è stata quella di chiedere il mantenimento di uno stretto raccordo bilaterale con le autorità iraniane, “affinché possano considerare un atto di clemenza in questo specifico caso”. L'Italia, da anni impegnata nel portare avanti alle Nazioni Unite iniziative per la moratoria e, in prospettiva, l'abolizione della pena di morte, ha sin dall'inizio sostenuto, nelle diverse sedi internazionali, l'opportunità di inserire nell'agenda politica complessiva con Teheran anche il tema dei diritti umani. "Non in chiave inquisitoria - ha precisato Frattini - ma per poter sviluppare un dialogo basato il più possibile sulla piena fiducia ed il rispetto reciproci".
Sakineh come Maryam. Un’altra donna, incinta, aspetta rinchiusa nel carcere di Tabriz da ben quattro anni che qualcuno ponga fine alla sua esistenza. I suoi legali hanno fatto appello affinché la sua condanna alla lapidazione sia sostituita dalla più “clemente” fustigazione. E poi c’è Azar Bagheri, 19enne. Aveva solo quattordici anni quando fu costretta ad un matrimonio che non desiderava. Il marito, dopo un po’, cominciò a presentare denunce contro di lei, dicendo che non lo amava e che aveva una relazione con un altro uomo. La giovane fu arrestata, imprigionata per “sesso extramaritale” e ora attende la morte per lapidazione da oltre quattro anni. Per tante storie che affiorano dalla polvere di un regime fondamentalista, tante altre rimangono sepolte tra le mura di un carcere, dove spesso il discrimine tra morte e sopravvivenza è dettato dalla capacità di far uscire il proprio tragico vissuto al di là delle sbarre, mobilitando la comunità internazionale, affidandosi alla capacità di pressione degli altri Paesi. Una sorte che non è toccata a una ragazza di soli 16 anni che, poche settimane fa, si è tolta la vita pur di sfuggire all’impiccagione. Lei non ce l’ha fatta ad aspettare che qualcuno si interessasse al suo caso, che qualcuno sollevasse una protesta in sua difesa e le aprisse di nuovo le porte di un futuro cui tutti abbiamo diritto. E come lei non ce l’ha fatta Delara Derabi, una giovane pittrice iraniana di appena 23 anni. Occhi scuri e profondi, pelle chiara e lineamenti sottili. Un’altra giovane, e bellissima, donna che la mobilitazione internazionale, in quel caso, non riuscì a salvare dall’impiccagione. Condannata per un delitto compiuto all’età di 17 anni, ma di cui lei però si era poi dichiarata innocente, e impiccata nonostante il capo dell’apparato giudiziario avesse concesso un rinvio di due mesi dell’esecuzione. Difficile dimenticare quel volto bellissimo che campeggiava su numerosi cartelli, difficile dimenticare le sue ultime parole affidate ai genitori in un grido di dolore urlato al telefono, quando l’impiccagione era stata improvvisamente disposta, senza nemmeno avvertire il suo avvocato, così come prevede la stessa legge.
Storie terribili. Storie che non andrebbero dimenticate, ma raccontate il più possibile. Per non spegnere i riflettori su un Paese, l’Iran, in cui il cammino verso la piena affermazione dei diritti umani appare lento e difficile, ma non impossibile. E anche per discernere tra quelli che sono i dettami seguiti dai fondamentalisti islamici e i precetti diffusi dalla comunità islamica moderata, che in queste pratiche non si riconosce.
Il fatto, poi, che la percentuale di donne condannate a morte in Iran e in altri paesi islamici sia nettamente superiore a quella degli uomini fa avanzare più di un sospetto. Al di là dei reati previsti dalla legislazione penale, ispirata e permeata da una visione fondamentalista del Corano, è impossibile non notare una palese disparità di trattamento tra uomini e donne. Quasi che il reato più grave, in  fondo, sia proprio quello di essere donna. 

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