martedì 10 agosto 2010

L’Italia del Ponte sullo Stretto e dello pseudo sviluppo

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Il ponte della mafia, delle promesse, dei cantieri, del mercato, delle prebende compensative. Il Ponte dell’Europa unita, con i suoi lunghi corridoi. L’Italia tutta finisce per rispecchiarsi nel ponte. I suoi deficit strutturali, la sua burocrazia bizantina, il suo porre puntualmente in secondo piano gli interessi pubblici a scapito di quelli privati.

Motivi di studio e di ricerca hanno orientato negli ultimi mesi la mia attenzione sulla pluridecennale questione delle grandi infrastrutture. Il Ponte che dovrebbe attraversare lo Stretto di Messina, simbolo monumentale di una futura rinascita meridionale, mi si pone di fronte con il carico di ambiguità che si porta dietro. La lettura e l’interpretazione dei numerosi punti di vista a riguardo generano sconforto, l’eterogeneità dei saperi impiegati costringe l’osservatore a uno sforzo continuo.
Si alternano le analisi economiche dei costi benefici imputabili all’opera alle faccende concernenti la sua incerta cantierabilità, le dispute sulla sostenibilità che vedonoimpegnati organizzazioni ambientaliste e amministrazioni locali e nazionali. Il ponte sostenuto e difeso, durante una particolare fase politica, da un partito di centro-sinistra e successivamente delegittimato e osteggiato da quello stesso partito. Il ponte della mafia, affare delle cosche e della criminalità internazionale; il ponte delle promesse, dei cantieri, del mercato, dell’impresa, delle prebende compensative, dell’Italia che crea nuovi posti di lavoro, leva infrastrutturale per grandi commerci mediterranei. Il Ponte dell’Europa unita, con i suoi lunghi corridoi pronti ad accogliere viaggiatori privi di un’identità comune. Raccolgo dati, interessi, documenti, regolamenti, articoli, lavori scientifici e cresce in me la sensazione che l’Italia tutta finisce per rispecchiarsi nel ponte. I suoi deficit strutturali, la sua burocrazia bizantina, il suo porre puntualmente in secondo piano gli interessi pubblici a scapito di quelli privati.
Il ponte, allora, come luogo di osservazione privilegiato dello pseudo sviluppo italico. Le vicende che intorno all’opera gravitano indicano la fragilità delle istituzioni locali nel progettare lo sviluppo dei propri territori, l’inadeguatezza degli strumenti convenzionali impiegati dagli economisti al fine di decretare l’utilità o inutilità di un’opera, l’assenza di un sistema di governance in grado di dar voce agli interessi diffusi, l’uso distorto e poco trasparente delle informazioni da parte dei più importanti mezzi di comunicazione di massa. Tutto porta a considerare il grande ponte come sintesi delle anomalie italiche, compresa la perenne attrazione per una gestione centralizzata dell’economia e della società da parte dei governi nazionali e la scarsa propensione dei cittadini a prendere parte attivamente al governo della cosa pubblica.
Da un lato, il ponte come espressione di una cultura eteronoma dello sviluppo ancora fortemente radicata nelle istituzioni. Dall’altro, rilevatore del fatto che la classe dirigente del Paese vive sempre più alla giornata, in balia dell’effimera dichiarazione estemporanea rilasciata in politichese, del tracotante populismo dei partiti liquidi, della resistenza spuria e difensivista degli ultimi rappresentanti sindacali. L’Italia del ponte sembra non avere più certezze, obiettivi, programmi di sviluppo, idee funzionali ad aggredire la sostanza dei problemi reali. Se questa è la percezione che prende vita da uno sguardo d’insieme, dalla volontà di riassumere in poche battute le fattezze dell’ennesima stramberia nostrana, le cose cambiano se l’osservatore decide di confondersi nell’universo variegato di piccoli attori che a partire dalla vicenda ponte cercano di esprimere la loro posizione.
È possibile in tal caso imbattersi in gruppi di cittadini organizzati, che da circa un decennio si misurano con la complessità dell’opera e con il pulviscolo di attori pubblici e privati che sostiene o contrasta l’iniziativa infrastrutturale. È possibile incontrare, ad esempio, i membri della “Rete No Ponte”, cittadini poco propensi – concedetemi un gioco di parole – a lasciar passare l’acqua sotto i ponti, in attesa che le istituzioni formalmente preposte al governo dello sviluppo comunichino decisioni irrevocabili. Punte visibili di quella cittadinanza attiva che il governo di centro-destra italiano fatica a contenere, a gestire, a neutralizzare.
Persone che lavorano, che studiano, che discutono incessantemente in merito alle condizioni di arretratezza della loro città, della loro regione. Si scambiano informazioni, organizzano manifestazioni pubbliche, coinvolgono – o almeno cercano di coinvolgere – i rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali nelle loro iniziative. Rappresentanti che nel corso degli ultimi anni non hanno mai concesso ai cittadini un’arena pubblica adatta al confronto e al dialogo. Sono alla ricerca di politiche alternative quelli della “Rete No Ponte”, sostengono che i loro territori pongono al legislatore problemi più urgenti da risolvere, anzi affermano che il ponte non può essere inteso come un “problema da risolvere”.
Come si ricollega quest’intervento a un processo di sviluppo che dovrebbe condurre la società dello Stretto fuori dalla perenne crisi? In che modo potrebbe contribuire a migliorare la condizione dei cittadini? In che modo si rapporta ai cambiamenti globali che investono produzione, trasporto e consumo di beni e servizi? La Sicilia, ricordano, ha una rete stradale e ferroviaria medievale, vive nel più completo abbandono dal punto di vista della messa in sicurezza antisismica e idrogeologica, non riesce a valorizzare la sua innata vocazione turistica e la mafia continua indisturbata a esercitare un controllo capillare su tutto ciò che potrebbe generare ricchezza e benessere.
Lamentano una poco lungimirante classe politica, criticano il sistema dell’informazione locale, stretto nella morsa di figure ingombranti che lubrificano radicate cricche economiche e sociali. Assistono alla frantumazione di partiti e sindacati, troppo impegnati sia gli uni che gli altri a disputarsi fette di potere interno e poco avvezzi a riconoscere l’evidenza di una “moderna povertà” post-industriale. Il ponte è percepito come una provocazione, come un gioco a somma negativa, dove a trarne profitto e vantaggi saranno i grandi conglomerati industriali e finanziari. Nel frattempo, spuntano timidamente i primi cantieri, la comparsa delle trivelle ricorda a chi l’avesse dimenticato che c’è un ponte da costruire, ma sembra perpetuarsi un clima d’indifferenza generalizzato tra la popolazione.
I proclami in pompa magna tesi ad accentuare il miracoloso impatto modernizzante dell’opera non hanno scalfito quel senso di nostalgica rassegnazione dei passanti: tanto il ponte non si farà! Orfani di priorità istituzionali e punti di riferimento valoriali, gli attivisti no-ponte avvertono il disagio di chi è costretto a muoversi in un ambiente generatore di frustrazione. Il concetto di movimento, così come quello di rete, non riesce fino in fondo a esprimere la natura del gruppo. Molta letteratura sociologica e politologica ha speso gran parte delle sue energie nel sottolineare il carattere instabile di tali formazioni sociali. Mi rendo conto, invece, che la loro organizzazione e le strategie relazionali poste in essere riescono a fondere in un tutt’uno rigidità e flessibilità, autorità e cooperazione. Sono partiti dalla questione ponte, ma il loro raggio d’azione sembra estendersi progressivamente.
Guardano con attenzione alle caratteristiche del tessuto economico locale, formulano proposte d’investimento mirate; chiedono “infrastrutture di prossimità”, interventi cioè di piccolo cabotaggio in grado di migliorare la qualità media della vita. Cittadini che dopo l’orario di lavoro, dopo i corsi universitari, leggono, ascoltano, s’interrogano su tutto ciò che li circonda; reperiscono le informazioni di cui di volta in volta hanno bisogno con sforzi personali, giungono in maniera autonoma alla costruzione di modelli di sviluppo alternativi e, in alcuni casi, arrivano a ipotizzare alternative allo stesso modello sviluppista. Una minoranza che non privilegia un linguaggio scientifico fine a se stesso ed è sprovvista di quella diplomazia accademica che solo i professionisti della conoscenza hanno innalzato a feticcio totemico. La loro scrittura è immediata, non amano le forme generiche, anonime, astratte. Basta leggere i lavori nati nel solco dell’impegno contro il ponte e pubblicati dalla casa editrice terrelibere. Insomma, mi trovo al cospetto di un’azione civica che merita attenzione e rilievo.
Semi di cittadinanza che disegnano prospettive di mutamento dal basso, che hanno interiorizzato una concezione della politica come gestione del bene comune, poco disposti all’adattamento, al silenzio. Lo pseudo sviluppo si affronta anche raccogliendo questi semi dispersi sul territorio meridionale.

FONTE : http://www.terrelibere.org/

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