giovedì 12 maggio 2011

Sulla propria pelle

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Il dovere del medico e i cinici della sopravvivenza a oltranza

Parlare dei massimi sistemi sul significato e l’origine della vita è facile e poco impegnativo. Ma chiunque voglia intervenire su questi argomenti si ricordi prima di aprir bocca di pensare bene a come è fortunato per non aver mai provato fino in fondo la sofferenza fantastica, profonda, continua e irripetibile di avere un figlio disabile.

di Cinzia Sciuto, da MicroMega, volume speciale "Il papa oscurantista", febbraio 2008

In tempi in cui piombare come un elefante in una cristalleria è diventato di moda, proviamo a entrare in punta di piedi, in silenzio, con lo sguardo basso e l’orecchio pronto a cogliere ogni sfumatura in queste storie che parlano di amore e di dolore, di sofferenza e di ingiustizia, di vita e di dignità.

Raffaele ha nove anni, non cammina, ha difficoltà nella coordinazione degli arti, porta la «pompa di Baclofen», un dispositivo che si installa sotto l’addome e che rilascia costantemente un farmaco miorilassante, un antispastico, direttamente nella colonna vertebrale. Monica, la mamma, confessa: «Ho pensato tante volte che sarebbe stato meglio se era anche scemo. Certo adesso ci dà tante soddisfazioni, ma quando si renderà conto della sua diversità?». Raffaele è nato alla 29a settimana, probabilmente a seguito di una infezione alle vie urinarie della madre non trattata adeguatamente, e ha trascorso più di due mesi in terapia intensiva. È nato quindi a un’età gestazionale abbastanza avanzata, in cui nessuno si chiede se rianimare o no: lo si fa e basta. Monica parla senza mezzi termini: «Rianimare feti alla 22-23a settimana è un insulto. I medici sanno perfettamente che, quei pochissimi che sopravviveranno, avranno dei danni gravissimi. Le emorragie cerebrali, tipiche di tutti i prematuri, figuriamoci in feti così piccoli, provocano danni irreversibili nella formazione della materia bianca, le fibre nervose. Leucomalacia, si chiama». Giuseppe e Monica sono preparatissimi, non solo perché hanno dovuto seguire Raffaele in questi nove lunghi e difficili anni, ma anche perché da sempre lavorano in un istituto che si occupa di assistenza ai disabili e quando è nato Raffaele sapevano bene a cosa sarebbero andati incontro. «Quello che mi fa imbestialire», si sfoga Monica, «è che in questa discussione sulla rianimazione dei feti ultraprematuri nessuno pensa alla vita che questi bambini faranno in futuro». Dopo essere uscito dalla terapia intensiva, Raffaele viene sottoposto a prelievi del sangue settimanali, ha reflussi gastroesofagei, soffre di tretraparesi spastica: tutto normale nei prematuri. «La parola normale», si sfoga Monica, «mi fa imbestialire, perché di normale non c’è proprio niente». Raffaele è nato in estate. «A metà dicembre, periodo in cui Raffaele sarebbe dovuto nascere, scompare il sonno quasi completamente, ha crisi di pianto disperato, diventa nero, non è tranquillizzabile in nessun modo. Ad aprile si decide di fare una polisonnografia. Il neuropsichiatra infantile ci comunicò con aria grave che Raffaele soffriva di crisi epilettiche senza perdita di coscienza, il che significa che percepiva scosse elettriche e forti dolori in tutto il corpo». Iniziarono ulteriori esami settimanali per il controllo dei barbiturici, elettroencefalogrammi di routine oltre alle «normali» corse al pronto soccorso per asma, bronchiti, polmoniti, infezioni del sangue. «Quando Raffaele aveva tre anni inizia un ciclo di terapie con tossina botulinica, che serviva per rilassare la muscolatura visto che i tendini non si allungavano, impedendo al bambino di divaricare le gambe ed allungarle e costringendo la testa del femore in una postura sbagliata, con conseguenti forti dolori. A cinque anni viene sottoposto ad un intervento per l’allungamento chirurgico dei tendini. A otto gli viene impiantata la pompa di Baclofen, per contrastare la spasticità e aiutare Raffaele a compiere i movimenti e a controllare il proprio corpo. A nove anni altro intervento per l’allungamento dei tendini». E molti altri interventi ancora, purtroppo, attendono Raffaele, che «vive tutte queste cose come se fossero normali perché non ha conosciuto la vita normale. Affronta gli interventi con coraggio, alle volte anche con entusiasmo, perché è consapevole che servono a migliorare le sue condizioni. Non ha mai pianto per un prelievo, neanche in sala operatoria. Tutto questo non è assolutamente normale per un bambino di nove anni».

 Tutto questo accade a un bambino nato a 29 settimane. Ed è appunto, come amaramente sottolinea Monica, e come conferma il professor Adriano Ferrari, neuropsichiatra dell’Università di Modena e Reggio Emilia, la norma in bambini nati tra le 28 e le 32 settimane. Non è difficile immaginare che più si va indietro nell’età gestazionale più i problemi, per i bambini che riescono a sopravvivere, saranno gravi. «Più nati prematuri sopravvivono», dichiara senza mezzi termini Ferrari, «più disabili avremo». Attenzione: una disabilità direttamente provocata dalla rianimazione e dalle cure intensive. Il punto è esattamente questo: la tecnica medica è oggi in grado di far sopravvivere feti sempre più prematuri, ma non è in grado di farlo garantendo loro una qualità della vita dignitosa. Se i tentativi di tenere in vita a tutti i costi un feto estremamente prematuro non sono semplicemente una manifestazione dell’onnipotenza della tecnica medica (in questo bizzarramente alleata con il fondamentalismo cattolico della vita a tutti i costi), non si può non pensare a che vita si condanna quello che oggi è ancora un feto, ma domani sarà una persona. Laura Brizzi è un medico di Firenze, si occupa di diagnosi prenatale. Sua figlia è nata alla 27a settimana ed è diplegica. Non cammina. «Tutti i progressi della neonatologia», spiega, «sono orientati esclusivamente alla sopravvivenza e non tengono in alcun conto la qualità della vita». Ha scritto nella cronaca fiorentina di Repubblica: «Parlare dei massimi sistemi sul significato della vita, l’origine della vita, il diritto alla vita è molto più facile e meno impegnativo. Oggi le cose stanno in modo tale che decidere se è giusto rianimare o no è in fondo un problema di altri. È solo di coloro che ne subiranno direttamente o indirettamente le conseguenze, non è un problema della società, è un problema dei singoli. Chiunque voglia intervenire su questi argomenti si ricordi prima di aprire bocca di pensare bene a come è fortunato per non aver mai provato fino in fondo la sofferenza fantastica, profonda, continua e irripetibile di avere un figlio disabile».

Un medico neonatologo ci ha inviato una testimonianza molto significativa, che risale a una decina di anni fa, anonima. Si tratta di un dialogo tra un padre e una madre che si è svolto alla presenza del medico. Il padre esordisce così: «Quando una cura intensiva la si vuole fare a tutti i costi si vuole a tutti i costi che un bambino rimanga handicappato». «Il primo giorno che Gabriele è stato estubato», stavolta è la madre a parlare, «ha avuto la possibilità di piangere. Noi l’abbiamo sentito per la prima volta e abbiamo provato un gran senso di gioia perché ci sembrava vivo. Però questo senso di gioia è diventato disperazione perché lui ha pianto perennemente e piangerà perennemente. Cosa hanno fatto? Hanno dato la vita a un pianto. Se nessuno ha il diritto di togliere la vita, che diritto hanno loro di darla in questo modo?». Il padre continua: «Gli è rimasto un quarto di cervello. Le capacità di avere una relazione con l’ambiente, con ciò che lo circonda, non ci sono assolutamente. È come un bambino vegetale solo che al posto di essere lì immobile ha un comportamento violento, aggressivo fatto di urla e torsioni, di movimenti spastici». La madre aggiunge: «Con un bambino così non sei veramente madre perché non esiste un rapporto» e lui conclude: «Quando il medico mi ha detto che sembrava che a Gabriele rimanesse solo un mese di vita, io ho provato una sensazione di benessere. In quel momento mi sono detto: “È finito il martirio”».

Fabiana ci racconta così la sua storia: «Ho partorito due gemellini alla 24a settimana e 3 giorni, dopo la rottura di uno dei due sacchi alla 23a settimana e 6 giorni. Alla nascita il maschietto ha avuto un buon punteggio Apgar, 6, [il punteggio Apgar è un indice che indica la vitalità del feto, utilizzando vari parametri. Il “punteggio” varia da 0 a 10], pesava 728 grammi e ha addirittura pianto. Purtroppo dopo dieci ore è volato in cielo. La piccolina invece è nata di soli 535 grammi, non ha pianto né respirato, Apgar 0. È stata però rianimata e intubata e pare si stesse riprendendo, tanto che quando il fratellino è morto lei è stata addirittura estubata. Sono seguiti ventitré giorni terribili in terapia intensiva, un’altalena continua di speranze e disperazione. Dopo circa dieci giorni è peggiorata, è stata intubata nuovamente, il che le ha provocato un pneumotorace. Da lì è stata una discesa libera… sempre peggio… È morta tra le mie braccia alle 6,20 del 7 marzo 2007. Onestamente per me è stata una grande gioia averla avuta con me anche solo per così poco tempo, ma se ripenso a tutte le torture cui è stata sottoposta… prelievi ogni due ore, anche dalla testa… la sua boccuccia spalancata in un urlo silenzioso… allora penso che sarebbe stato meglio lasciarla andare subito con il suo fratellino».

Paola è la nonna di un ragazzo di 14 anni, Francesco, anche lui nato alla 29a settimana. Pesava 1.400 grammi. «Non era neppure così piccolo. Non aveva però i polmoni sufficientemente sviluppati e quindi venne portato in rianimazione, intubato e sottoposto a respirazione forzata». E inizia il calvario della terapia intensiva neonatale che tutti raccontano quasi con le stesse parole: le visite concesse col contagocce («tre volte a settimana, non più di un’ora»), il rito del lavaggio antisettico, il camice, e poi stare lì affianco all’incubatrice, contare il numero dei sondini, dei cateteri, controllare ossessivamente i valori sui monitor. «Noi non abbiamo chiesto di lasciarlo morire», ricorda Paola, «perché nessuno di noi ebbe mai la precisa consapevolezza del disastro che si sarebbe poi verificato». Se l’aveste avuta? «Nessun dubbio: avremmo chiesto di lasciarlo andare». Monica, con la sua lunga esperienza di assistenza ai disabili, conferma: «Se correttamente informati sulla qualità di vita futura del bambino, molti genitori direbbero: lasciatelo andare». Paola continua il suo racconto: «Io, nella mia insipienza, mi illudevo che se mio nipote fosse uscito vivo da quell’ospedale i suoi guai più grossi sarebbero stati superati. Sarebbe stato forse un bimbo gracile, ma noi lo avremmo seguito, curato e, col tempo, tutto si sarebbe risolto». Non è stato così. «All’uscita dalla rianimazione venne trasferito nel reparto di chirurgia infantile ed operato alla testa. Quando aveva tre mesi fu finalmente dimesso. Da quel momento potei osservarlo con calma e poco per volta mi resi conto che non sarebbe mai stato un bambino normale. Aveva una sconfortante fissità nello sguardo, sentiva i rumori, ma non cercava di capire da che parte provenissero, cominciò a farlo quando aveva quasi un anno. Non afferrava gli oggetti, non stava seduto e le sue gambe cominciarono ad irrigidirsi. Per fortuna ci vedeva e riusciva a deglutire senza difficoltà. A otto mesi iniziò la fisioterapia, ma contemporaneamente fu colpito per qualche tempo da crisi epilettiche che lo facevano molto soffrire. Prima di ogni attacco piangeva in modo disperato e inconsolabile. Verso i sei anni ebbe mesi molto difficili con crisi di vomito violento alternate a momenti di profondo torpore. Quasi sicuramente aveva forti mal di testa. Nonostante mia figlia sospettasse un cattivo funzionamento del catetere che scarica il liquor cerebrale, i medici ci misero un po’ a formulare una diagnosi precisa, poi lo operarono altre due volte alla testa. Ricordo che in quelle settimane, spesso, si addormentava addosso a me, così mi accorsi che di tanto in tanto smetteva di respirare e si riprendeva quando lo scuotevo, come già gli succedeva appena nato, in rianimazione. Furono giornate che ho cercato spesso di dimenticare. Superammo anche quel frangente, ma la spasticità aumentava creandogli problemi alle anche e ai piedi. Diventò sempre più difficile fargli divaricare le gambe e impossibile mettergli un paio di scarpe. Lo operarono all’anca destra ed in un secondo momento gli inserirono sotto la pelle dell’addome un erogatore che diffonde lentamente un farmaco miorilassante che dovrebbe aiutarlo ad essere un po’ meno rigido». I problemi di Francesco, purtroppo, non sono solo motori, ma anche di grave ritardo intellettivo: «Si esprime con difficoltà e solo noi siamo in grado di capirlo, è incontinente, non riesce a stare seduto se non ha un appoggio e la sua spina dorsale è ormai deviata. Quando cominciai a capire che avrebbe avuto dei guai, dentro di me, per un breve periodo, sperai di poter almeno comunicare con lui normalmente, di potergli insegnare delle cose, ma mi resi conto che ero infinitamente egoista. Meglio così. Io spero che la percezione della sua diversità non lo faccia mai soffrire». Paola poi confessa: «Quando Raffaele si addormentava in braccio a me, al terrore di vederlo morire tra le mie braccia si alternava la tentazione di non muovermi e di lasciarlo andare. Non lo feci perché non sono sua madre. Sono certa che se fosse stato mio figlio avrei trovato il coraggio di permettergli di morire».

Poi ci sono i miracoli. Lo scorso 10 gennaio su Rai Uno nel corso della trasmissione Festa italiana, in onda tutti i giorni alle 14,10, è stata raccontata la storia di Daniele, un bambino nato a 23 settimane e 4 giorni, che pesava alla nascita 560 grammi. Daniele ha trascorso più di tre mesi in terapia intensiva e le speranze che potesse farcela, ma soprattutto che potesse essere sano, erano davvero poche. Invece oggi Daniele ha tre anni e sta bene. Un «miracolo», appunto. Ovvia la felicità dei genitori, che però erano pienamente consapevoli del carattere assolutamente straordinario del loro caso. La conduttrice invece probabilmente non sa che i miracoli per loro natura sono molto rari e del tutto imprevedibili e che la prassi medica non può certo basarsi su di essi. E dunque, rivolgendosi alla madre, chiosa: «Tu sei venuta qui per far capire quanto sia importante crederci e soprattutto per far capire che i bambini nati prematuri diventano belli e sani». Ecco il corto circuito. Invece di sottolineare il carattere del tutto straordinario del caso, di ricordare le migliaia di genitori che «ci avevano creduto» tanto quanto la madre di Daniele e che però – chissà per quale misteriosa logica divina – non erano stati miracolati, si sbandiera l’eccezione come la regola. I danni di questo tipo di informazione sensazionalistica e acritica sono enormi. Paola, la nonna di Francesco, racconta di essere stata «fuorviata da quello che solitamente si sente raccontare o ci viene propinato dai media circa parti plurigemellari di neonati minuscoli che sopravvivono o di bimbi così piccoli da stare nel palmo di una mano e diventati poi giovanotti prestanti ed atletici» e di aver per questo sperato fino all’ultimo che suo nipote, una volta superato il momento critico, sarebbe stato un bimbo normale. Poi si è dovuta rendere conto della realtà: «È vero che ci sono bambini nati pretermine che riescono ad avere un’esistenza normale, ma, per uno fortunato che se la cava, quanti sono i cerebrolesi affetti da retinopatie, sordità, gravi handicap psicofisici?».

Altro «miracolo». Una donna scopre alla 21a settimana che a sua figlia mancano i globi oculari. Decide per l’aborto terapeutico, quello che – in certe precise condizioni stabilite dalla 194 («quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» oppure, ed è questo il caso, «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna») - si può fare anche dopo i 90 giorni di gravidanza. L’intervento viene fatto a 22 settimane e 5 giorni di gestazione. Il feto nasce vivo. Piuttosto di prestargli però esclusivamente le cure confortevoli, così come previsto dalle raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse del ministero della Salute e dalle linee guida di tutto il mondo, viene rianimato e sottoposto a cure intensive («a 22 settimane e 5 giorni con una precedente malformazione le cure intensive costituiscono certamente accanimento terapeutico», spiega il professor Gianpaolo Donzelli, professore ordinario di neonatologia dell’Università di Firenze-Ospedale Meyer e uno degli esperti che ha contribuito a scrivere le raccomandazioni). A questo punto, alla malformazione originaria che aveva portato alla decisione di abortire, si sono aggiunti tutti i problemi derivanti dalla nascita molto prematura: una sordità pressoché totale causata dalle emorragie cerebrali, gravi problemi respiratori e di alimentazione, varie infezioni. Subisce un intervento a dieci giorni di vita. La piccola riesce a sopravvivere a tutto questo calvario e dopo sette mesi viene trasferita in una casa famiglia della Comunità Giovanni XXIII. Oggi ha 16 mesi, pesa 6 chili e 290 grammi e le è stato applicato un apparecchio acustico («che sta funzionando meglio di come ci aspettavamo», dichiara la madre affidataria), ha uno sviluppo non in linea con la sua età («si comporta come una bambina di sei-sette mesi») e ha dei problemi di alimentazione tanto che si sta valutando l’ipotesi di applicarle una peg (gastrostomia endoscopica percutanea, un sondino per l’alimentazione applicato direttamente allo stomaco). Non si riesce a sapere molto altro né sulle sue condizioni attuali né sulle previsioni che i medici fanno su quelle future: la famiglia affidataria, che vuole rimanere anonima, ne desidera preservare la privacy. Sulla base di queste poche notizie sulla storia clinica di questa bambina abbiamo chiesto un parere al professor Donzelli secondo il quale, vista l’età gestazionale alla quale è nata, «si può prevedere con una discreta approssimazione che sarà affetta – come la stragrande maggioranza dei neonati a questa età gestazionale – da paralisi cerebrale con gravi problemi motori, cognitivi, relazionali, percettivi».

Forse solo chi ha vissuto esperienze simili può comprendere la devastazione che un aborto terapeutico porta con sé. Francesca ha oggi 37 anni, nel 2005, alla 23a settimana di gravidanza, al feto viene diagnosticata la oloprosencefalia, una gravissima malformazione cerebrale che avrebbe condannato suo figlio a una sicura vita da pluridisabile, cognitivo e fisico. Francesca decide per l’aborto terapeutico; era già al tempo limite, doveva far presto. Ma la burocrazia ha i suoi tempi. Iniziano le trafile fra medici, genetisti, psicologi: «Senza alcuna tutela della riservatezza», ricorda, «dovevi stare lì in fila, con tutto il carico di dolore e di sofferenza che ti porti dentro». E poi puoi sempre incontrare un obiettore: «Quando sono stata ricoverata in turno c’era un medico obiettore e quindi ho dovuto aspettare un giorno prima di poter iniziare la procedura. A fine turno quel medico passò dalla mia stanza, vide che piangevo e mi disse: “Signora è inutile che piange. Si prepari che questo sarà il giorno più lungo della sua vita”. Non scorderò più il dolore che mi hanno provocato quelle parole». Francesca ha avuto un travaglio di due giorni, senza alcuna riservatezza, che ha dovuto affrontare per lo più da sola. «Ho toccato il fondo della mia umanità», dice, «e quando sento storie come quella dei carabinieri che piombano in un ospedale a Napoli per interrogare una donna che ha appena abortito mi viene solo voglia di urlare». Non sappiamo se il feto di Francesca è nato vivo o morto. Di certo nessuno si è accanito su di esso per tenerlo in vita. «Rianimare un feto abortito contro la volontà della madre è un’aberrazione, un abominio. Per le donne è tornato il tempo di indossare abiti dimessi e riprendere la parola. L’aborto è una questione femminile. Nessuno può parlare e decidere al posto delle donne. Se c’è qualcosa che va modificato nella 194 è nella direzione di una umanizzazione delle procedure. Io ho bisogno che sia riconosciuto il mio dolore. L’aborto non è mai una scelta senza conseguenze». Conseguenze che le donne si portano dentro tutta la vita. Oggi Francesca ha un figlio ed è nuovamente incinta: «Ma vivo la gravidanza in maniera dissociata, non sono riuscita ad affrontare un parto naturale». Una sorte cinica e beffarda (dove stava guardando l’autore dei miracoli?) ha voluto che pochi mesi dopo l’aborto di Francesca una sua amica partorisse una bambina. La figlia di Ada è venuta alla luce dopo le canoniche 40 settimane. Tutto regolare, apparentemente. Subito dopo la nascita a sua figlia viene diagnosticata la stessa identica malformazione per la quale Francesca aveva abortito: la oloprosencefalia. Nessuno l’aveva individuata, nonostante Ada avesse fatto tutti gli accertamenti possibili nel corso della gravidanza. Oggi la bambina di Ada ha due anni, è pluridisabile, invalida al 100 per 100.
 Ada ha scritto qualche giorno fa in una lettera pubblicata su Repubblica: «La Chiesa, la politica, la medicina smettano di guardare alle donne come a puttane che uccidono i propri figli. L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta che va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta.
 Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico. Ai medici che vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri dico di uscire dai reparti di terapia intensiva, andare a vedere cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno presente hanno condannato quelle madri». 




(24 novembre 2008)


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