venerdì 20 agosto 2010

Bilancio di un fallimento

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02c.jpgAnnalena Di Giovanni da Beirut
DOPO LA GUERRA. Quello che gli ultimi marines si sono lasciati alle spalle è uno Stato instabile, pieno di milizie, corruzione, fame e, d’ora in poi, vista l’assenza di truppe ufficiali, un Paese che non farà più notizia.
Nuove opportunità di lavoro. Le truppe statunitensi si stanno ritirando dall’Iraq, tutte le maggiori compagnie cercano ora nuovi contractor che si occupino della sicurezza a Baghdad. Sono subito disponibili 300 posti nella Green zone, cliccate qui per fare domanda». è comparso qualche settimana fa sul sito jobs online, quando si è diffusa la voce che i marines, finalmente, se ne vanno dall’Iraq e che serviranno nuovi mercenari a prenderne il posto, forniti dalle solite Blackwater, Idm, e così via (tutte già tristemente note per i casi di tortura, traffico d’armi e droga, e brutalità sulla popolazione irachena).


Un ritiro in fretta, e in anticipo. L’aveva promesso il presidente Barak Obama poco dopo la sua elezione, durante un fatidico discorso nel 27 febbraio 2009 di fronte alla base marine di Camp Lejeune nel North Carolina, che il 31 agosto 2010 sarebbe stato per gli Stati uniti d’america il giorno del ritiro degli ultimi battaglioni di combattimento dell’esercito regolare dall’Iraq post Saddam Hussein.

Era il cosiddetto 
De-Escalation act messo a punto da lui stesso in veste di senatore nel 2007, nei giorni in cui c’era da fermare la cosiddetta surge voluta dall’allora presidente Bush, che con l’aggravarsi del conflitto civile in Iraq, degli attentati e dell’aumento delle basi di al qaeda nel paese, aveva deciso di risolvere il problema mandando altri 25mila uomini a Baghdad. Un’era conclusasi formalmente ieri intorno alle sei di mattina, quando l’ultimo convoglio ha passato il confine col Kuwait.

La guerra in Iraq è di fatto finita, per giunta con due settimane d’anticipo rispetto alla scadenza ufficiale. Sono passati sette anni da quel 20 marzo 2003 quando circa 125 mila soldati, sotto l’egida dei marines di Washington, entrarono in Iraq dichiarando guerra al regime baathista. Per l’allora residente George W. Bush, assumere il controllo dell’Iraq era la più urgente delle priorità: voci (poi rivelatesi false) di armi di distruzione di massa in mano al dittatore Saddam, instabilità del terzo paese più ricco di petrolio al mondo; ogni genere di ragioni vennero messe sul piatto per creare la coalizione internazionale che mosse guerra a Baghdad, inaugurando una sporca guerra di operazioni malriuscite, media condizionati, villaggi rasi al suolo, torture in carcere e appoggi ai signori della guerra.

Gli americani ci hanno rimesso più di 4mila uomini, e anche gli italiani – poi ritiratisi durante il governo Prodi – contarono diverse vittime. Da oggi, però, la missione è finita. Tutti a casa. Resteranno soltanto 50mila cadetti in missione tecnica, “transitoria”, che consterà nel fornire 
counselling ed equipaggiamento all’eserito iracheno. Che, però, intanto, non sembra essere ancora pronto alla successione.

Ai 400mila uomini che Baghdad dovrebbe stanziare al posto degli americani manca l’addestramento, la disciplina, mancano degli organi di comando con un’esperienza alle spalle (la vecchia struttura dell’esercito iracheno è stata completamente disfatta dall’amministrazione militare americana perché considerata fedele al vecchio dittatore Saddam Hussein), e manca l’equipaggiamento.

Secondo le stesse fonti dell’esercito iracheno, occorrerà aspettare il 2020 perché l’Iraq sia militarmente autosufficiente. Ma Washington, colta nel pantano del vicino Afghanistan, non può permettersi di restare oltre in Mesopotamia. Quello che gli ultimi marines si sono lasciati alle spalle, ieri, è un paese instabile, pieno di milizie, di corruzione, di fame e, d’ora in poi, vista l’assenza di truppe ufficiali, un paese che non farà più notizia.  

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