LA RIVISTA: http://issuu.com/iragazzidellapanchina |
Appoggio il libro che sto leggendo sul comodino. Guardo la sveglia: due e trenta. È una della mie solite insonnie. E sì che la mente cerca con forza il bisogno del riposo nel silenzio della notte. Gli occhi e il fisico sono stanchi, le neuropatie provocate dal virus dell’aids mi attraversano il corpo e le loro scariche elettriche non si lasciano andare alla presa del sonno. Ormai ci sono abituato, comunque domani arriva sempre un altro giorno, e si sa che la mattina ha l’oro in bocca. La giornata si prospetta lunga e impegnativa: sveglia alle sei, corriera alle sei e quarantacinque. Destinazione: Aviano, ospedale, CRO. Giornata intensa, meglio armarsi di giornale e libro, senza dimenticare calma e pazienza, le cose più importanti. Affronterò un’altra giornata terapeutica, fatta di varie flebo ospedaliere, e la mente lavorerà, ogni problema consegue sempre da un altro problema, e volendo andare più a fondo si può arrivare all’infinito, alle origini delle origini,famigliari compresi, alimentando mille menate psicologiche, per cercare di capirsi e vivere poi meglio, o forse solo per provare a dare un senso a ciò che ci capita. All’ormai consolidata fratellanza con l’aids da un lustro si è fatto largo dentro di me, aggiunto alla famiglia, un altro virus che di nome fa “papilloma” e mi offre la sua fastidiosa compagnia fatta di polipi che s’attaccano alla mia povera laringe e alle corde vocali. Naso gola respiro comunicazione: questi i suoi argomenti preferiti. E da buon virus che si rispetti, lo puoi bastonare tagliare scorticare bagnare con l’acqua benedetta bruciare col laser, niente. Lui non molla. Dopo un po’ si ripresenta, si vede che gli piaccio proprio tanto. Così, tra un’operazione e l’altra, gratta oggi gratta domani, a forza di grattare sono rimasto con un fil di voce. Voce flebile e faticosa, difficile da ascoltare e da far uscire, troppo debole per orecchie distratte e voci spesso prepotenti, impertinenti, invadenti, sorde alle altre, a quelle flebili. Essere senza voce automaticamente mi declassa al rango del succube, dell’ignorato. Non posso alzare la voce, neanche al livello di chi sovrasta distrattamente la mia. Ormai non spreco neanche un filo di voce, per farglielo capire. Provo sempre più sulla mia pelle il significato del detto “fare la voce grossa”. Ma la voce grossa non ce l’hanno solo i prepotenti, indistintamente tutti i detentori di voce sana giocano e lottano inconsciamente per farsi sentire, o anche solo per alimentare il piacere narcisistico di sentirsi mentre parlano. Mi sento sempre più circondato dalla cultura del parlare, del bla bla, a scapito dell’ascoltare, con attenzione, l’altro in allineamento con la capacità del proprio ascolto interiore. Bla bla bla, aria riempita da voci stridule starnazzanti spigolose irritanti, a volte orfane del pensiero. Il medico del CRO mi dice che non posso stare così con questi polipi, e mi ripropone un ciclo di flebo, uno ogni dieci giorni per sei mesi, e siccome è fondamentale per la guarigione avere fiducia nella terapia che ti viene proposta, accetto il suo suggerimento. È una cura sperimentale, ideata a Milano, parente povera della chemioterapia. Mi dice che potrebbe dare lo sfratto definitivo al mio ospite. Fortunatamente la natura mi ha donato un’indole tranquilla e autoironica, mi spingo a dire semispirituale e accomodante, e ironia della sorte portata al silenzio. Oggi penso che potrei rimanere anche “quasimuto” . Quale e quanta fatica ci vuole per imparare ad esprimersi e farsi ascoltare! O forse no, potrei usare altro per farmi capire, mani espressioni del volto, silenzio. Stare zitti è un esercizio che molti dovrebbero imparare a fare, e non è mai troppo tardi. I Sani parlano a voce forte, ma sovente senza riflettere, che implica una responsabilità così forte verso la vita che hai dentro. Ci vuole umiltà e ascolto sincero, soprattutto per quella voce che ti parla dentro. L’anima delle parole si fa sentire veramente quando vibra con il respiro del cuore e vuole essere ascoltata e rispettata. Il mondo dei sani, così presi da se stessi e dalle loro corse a riempire vuoti fatti di un’immagine sempre più difficile da sostenere, non si accorge del mondo che ha dentro, convinto della propria immortalità. L’ascolto fra malati è tutt’altra cosa. C’è da subito una tacita intesa, difficile da percepire nell’altro mondo, quello di sani. Capisci che sei solo ad affrontare questa prova, e forse è meglio così. Perché è tutto molto più chiaro, da subito, senza false illusioni. Compagni e compagne sono una grandissima forza, al pari di un gran peso, con i loro occhi di paura, sempre più presenti i pensieri di abbandono. La malattia mette a dura prova i rapporti far sani e ammalati. Infrange, rompe il quotidiano, col suo peso psicologico, quello della morte. Le logiche del mondo dei sani diventano sempre più lontane, direi assurde. Per quanto uno sia sensibile, fatica molto a capire un malato cronico e virulento, tanto più se la malattia dura quanto tutta la tua vita da adulto. È quasi inevitabile che il suo sentimento sia un mix di debolezza serenità conquistata e leggera depressione contemplativa che ti prepara la mente, con calma, ai naturali eventi della vita,
Fra malati si crea un’eguaglianza democratica, quasi amichevole, dettata dalla para della la morte. L’ho inteso nitidamente negli anni aspettando il mio turno, frequentando le stanze del day hospital, stendendomi sui loro lettini, un ciclo di flebo dopo l’altro. Chi si è, il lavoro che si fa, guadagnare trecento mille o diecimila euro al mese, non conta niente. Si è tutti uguali, come mai prima, nella sala d’attesa o stesi sul lettino. Solo le storie familiari, fatte di solitudini o di amore, cambiano. Non serve guardare gli altri pazienti per indovinare le loro storie, basta starci vicino con la propria terapia attaccata al braccio, per staccarsi dal proprio ego e aprirsi a chi ti sta in fianco. Raccontarsi i sogni del presente, i desideri mischiati d’angoscia per il domani. Con comportamenti ed espressioni diverse, ma fortemente vere come le parole che escono direttamente dalla testa di chi è attaccato ancora al mondo dei sani attraverso la convinzione che ce la farà. C’è chi stanco, rassegnato nella possibilità di guarigione, preferirebbe andarsene senza soffrire troppo; chi con ironia rabbiosa scherza sul fisico che cambia, si gonfia, i capelli cadono. Impauriti, rassegnati, combattivi, accomunati dalla stessa disgrazia, si chiami cancro nel loro caso, aids nel mio, non cambia il peso di sentirsi vicino al mistero dell’eternità. Bisogna armarsi di una tenace pazienza, e guardare avanti. Ascoltarsi per capirsi, con il corpo sempre più stanco e martoriato dal male, dalle terapie devastanti, cocktail chimici contenuti in boccette e sacche colorate e no, o coperti da stagnola, che entrano nel sangue uno dopo l’altro, goccia dopo goccia, una tortura cinese scende dal flebo fino all’ago e poi dentro la vena, nuota nel sangue per distruggere le cellule malate. Come si fa a vivere la normalità, a vivere come prima?
Qualcuno è ben consapevole delle proprie possibilità di vivere a lungo.
Anch’io provo la stessa cosa e fatti i debiti paragoni, mi sento molto fortunato, visto che il mio pur fastidioso virus non mi mette ancora fretta. Avrei potuto morire tante volte, negli anni forti dell’eroina o per qualche infezione da virus come moltissimi miei amici, per questo mi sento un po’ un sopravvissuto. Certo, il segno, il tocco ce l’ho dentro e mi accompagna da troppo tempo come il legame con quelle persone che non avevo mai visto prima, con le quali ho passato solo qualche ora ogni tot giorni, il tempo di un lungo flebo. Quella flebo ci univa: insegnante tossico giudice operaio commerciante pensionato, con la tua morte nel letto a fianco, confidenti di pensieri intimi, inconfessabili anche a chi si ama, Persone che con ogni probabilità non avrei più rivisto e non mi stupisce l’insolita intimità che si crea da subito. Mi viene un po’ da sorridere, un sorriso misto a rabbia, certo, se penso che la paura della morte, la morte non degli altri, la propria, attorno a noi rompe tutte le domande e le barriere sociali. Con lo stesso strano malinconico gusto in bocca e una sensazione pesante in pancia, nausea, testa appannata, un semplice sorriso era l’appuntamento per la prossima seduta.
Le donne, si sa: sono le più aperte al nuovo, si scambiavano informazioni e qualche libro di guarigione con tecniche alternative: yoga erbe reiki new age, anche da supermercato, meditazioni o qualsiasi potere magico, cosmico con immancabile foto di padre Pio, insomma tutto quello che può distendere e aiutare gli effetti collaterali spirituali del male della vita e della morte.
Gli uomini forse sono più pratici e fatalisti nel ritirarsi in se stessi, con la paura di mettersi veramente a nudo, con la solitudine dei rapporti umani fatti di consumismo e arrivismo.
Ma quanto stupido sono! A lamentarmi per i trenta chilometri che devo fare in corriera per andare e venire dall’ospedale, quando le persone che ho conosciuto meglio in quel luogo vengono da lontano. Un pensionato dalla puglia, per la prima volta in vita sua aveva preso un aereo per venire in Friuli a farsi i flebi; o un giudice, che all’inizio del nostro scambio comunicativo pensavo un avvocato dalla parlata, evirato nel fisico e nell’animo: arrivava in macchina dalla Campania; come una giovane mamma insegnante, che si faceva due giorni di treno con il sorriso della purezza, destinazione Aviano, CRO; come una perfetta, simpatica signora di Jesolo, che con la sua serenità combattiva avrebbe preferito essere sola in questo periodo della sua vita: famiglia figli amici erano un sostegno ma un pensiero, un peso in più. Già, un peso in più, come la capisco. Anche a me succede spesso di pensarla in questo modo, annientato dall’indecisione: tenermi vicini gli affetti, le persone care, o liberarmi dal loro peso, sì, il loro peso dato dal peso della loro salute, del loro diritto ad un presente e un futuro senza sofferenze non contemplate dal menù tradizionale. Io riuscivo a capirla, quella signora, e spesso nel mio silenzio afono vorrei urlare così forte da scacciare lontano chi mi ama. La mia voce ormai sento con certezza che non potrà più urlare, tantomeno potrà tornare a cantare. Canta,canta che ti passa. Canticchieremo sottovoce.
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