Palermo, quell'affare da 140 miliardi e le accuse di essere "consulente" per gli interessi dei boss.
Non finisce di stupire il passato di Renato Schifani. Il presidente del Senato è stato indagato dal 1996 dalla Procura di Palermo per associazione mafiosa e un’altra decina di reati. Al termine di un complesso iter, la sua posizione è stata archiviata nel 2002. La vicenda prende origine dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Lanzalaco e, al di là della sua irrilevanza penale, merita di essere riportata perché comunque descrive l’ambiente dal quale proviene il primo presidente del Senato indagato (e prosciolto) per mafia. Il Fatto Quotidiano è riuscito a visionare il fascicolo dell’indagine.
Tutto inizia nel 1996 quando si pente l’ingegnere Salvatore Lanzalaco, un professionista che si occupava di appalti pubblici e che era in contatto con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra. Era il periodo nel quale il tavolino tra Cosa nostra, le imprese e la politica funzionava a meraviglia. Lanzalaco preparava i progetti per le gare. I politici mettevano a disposizione i finanziamenti, le imprese si accordavano in modo da fare vincere una di loro, la mafia eseguiva i subappalti e incassava anche una tangente, come anche i politici.
Non finisce di stupire il passato di Renato Schifani. Il presidente del Senato è stato indagato dal 1996 dalla Procura di Palermo per associazione mafiosa e un’altra decina di reati. Al termine di un complesso iter, la sua posizione è stata archiviata nel 2002. La vicenda prende origine dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Lanzalaco e, al di là della sua irrilevanza penale, merita di essere riportata perché comunque descrive l’ambiente dal quale proviene il primo presidente del Senato indagato (e prosciolto) per mafia. Il Fatto Quotidiano è riuscito a visionare il fascicolo dell’indagine.
Tutto inizia nel 1996 quando si pente l’ingegnere Salvatore Lanzalaco, un professionista che si occupava di appalti pubblici e che era in contatto con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra. Era il periodo nel quale il tavolino tra Cosa nostra, le imprese e la politica funzionava a meraviglia. Lanzalaco preparava i progetti per le gare. I politici mettevano a disposizione i finanziamenti, le imprese si accordavano in modo da fare vincere una di loro, la mafia eseguiva i subappalti e incassava anche una tangente, come anche i politici.
Lanzalaco racconta quello che sa su decine di gare. Il 18 dicembre del 1996 il collaboratore di giustizia viene sentito dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Gaspare Sturzosulla metanizzazione di Palermo. La gara da 140 miliardi di vecchie lire è stata aggiudicata il 14 dicembre del 1993 all’associazione temporanea di imprese capeggiata dalla Saipem di Milano e composta da Bonatti di Parma, Mediterranea Costruzioni Srl di Roma e Consorzio Emiliano Romagnolo (Cooperative bianche) che a sua volta girava il 10 per cento della sua quota del lavoro a due società siciliane: Cogepa e Climega. Secondo Lanzalaco la gara era stata truccata a suon di mazzette. Lanzalaco racconta che nell’accordo era inclusa una percentuale dell’1,5 per cento per la mafia e il suo socio Riccardo Savona (ora consigliere regionale) gli riferiva le lamentele della mafia a causa del mancato pagamento da parte delle imprese del nord. Lanzalaco racconta poi di essere andato a Parma a discutere prima dell’aggiudicazione con gli imprenditori della Bonatti sulla spartizione dei lavori. In questo contesto fa il nome di Schifani.
“Altri documenti che ho predisposto - spiega Lanzalaco ai pm – riguardavano i cosiddetti patti parasociali che dovevano servire nella gestione del lavoro successivamente all’aggiudicazione dell’appalto della metanizzazione all’Ati composta da Saipem, Bonatti, Mediterranea e Cer, nella trasformazione della stessa in consorzio con la divisione delle quote dei lavori. Il Raimondo mi presentò tale Avvocato Schifani Renato come un esperto del ramo. L’ho conosciuto per la prima volta a Parma quando ci recammo lì come ho detto nei precedenti verbali, nella sede della Bonatti e ricordo che fu lo Schifani assieme ai legali della Bonatti a preparare i patti parasociali. Lo Schifani era a conoscenza di tutte le fasi illecite di gestione della gara, e mi risulta che fosse molto inserito tra i consulenti del Comune di Palermo”.
Sulla base di queste e altre dichiarazioni di Lanzalaco, Schifani e altre 30 persone furono iscritte nel registro degli indagati il 13 marzo del 1996 per associazione mafiosa e altri reati. L’inchiesta fu archiviata nel marzo del 1998 ma quando a dicembre del 1998 il Gico della Finanza consegna finalmente l’informativa con alcuni riscontri, la Procura iscrive nuovamente Schifani e compagni. Il Gico scoprì che le ruspe erano di soggetti come il cugino del bossSalvatore Cancemi, Vincenzo Cancemi, e di una società di Vito Buscemi, arrestato e sottoposto a misure di prevenzione. Buscemi – per una coincidenza della quale gli investigatori non si sono accorti – abita nel palazzo di via D’Amelio costruito dalla cooperativa Desio nella quale Schifani e Buscemi sono stati soci per breve periodo prima di diventare condomini. Le Fiamme gialle recuperano anche l’elenco dei passeggeri dei voli Palermo-Bologna nel periodo precedente all’assegnazione della gara, quando Lanzalaco sosteneva di avere lavorato con Schifani ai patti sociali tra emiliani e siciliani. Nell’informativa si riporta l’elenco dei passeggeri del volo del 29 ottobre 1993: Schifani era seduto accanto ai fratelli Michele e Aldo Raimondo.Michele, morto nel 1995, era il politico Dc che aveva garantito a Lanzalaco e ai suoi amici “una quota di 5 miliardi di lire sui lavori della Bonatti”. Mentre Aldo era l’imprenditore che – sempre secondo Lanzalaco – andava in giro con le valigette piene di soldi per i consiglieri comunali. Secondo il pentito: “Quando chiesi al Raimondo quanto avevamo speso per tangenti, lui mi riferi che ci eravamo attestati su una quota di circa 500 milioni, che dovevano però essere intese come anticipazioni e che dopo l’aggiudicazione avremmo dovuto pagare la rimanente quota”. Il 9 novembre del 1999 il pm Sturzo iscrive ancora Schifani per associazione mafiosa e altri 9 reati, tra i quali il concorso in corruzione, concussione e abuso di ufficio “in relazione all’acquisto dei decreti di finanziamento e al pilotaggio dell’asta inerente l’appalto per la metanizzazione della città di Palermo e in particolare agli accordi raggiunti con Cosa Nostra per l’assegnazione della gara a un gruppo di imprese collegate con l’organizzazione mafiosa e agli accordi economici successivi per l’affidamento di noli autorizzati a imprese facenti capo direttamente o indirettamente a Cosa Nostra”.
Trascorrono due anni e la Procura stralcia alcuni indagati, che verranno arrestati nel 2003 per bancarotta aggravata dal favoreggiamento alla mafia e manda in archivio il filone principale. L’appalto della metanizzazione è salvo. Nessun reato nemmeno per Schifani: “considerato che in base alle dichiarazioni dei collaboratori e all’attività di riscontro del Gico non è stato addirittura possibile ricostruire in concreto quali interessi specifici o quali condotte in concreto abbia tenuto” i pm Lia Sava e Sergio Lari chiedono di archiviare “lo Schifani che è menzionato solo dal Lanzalaco come soggetto che avrebbe fatto parte di un gruppo che a Parma avrebbe redatto i patti parasociali per il contratto di appalto”.
Il 2 marzo del 2002 il Gip archivia Schifani, nel frattempo diventato capogruppo di Forza Italia al Senato.
Marco Lillo (il Fatto Quotidiano)
“Altri documenti che ho predisposto - spiega Lanzalaco ai pm – riguardavano i cosiddetti patti parasociali che dovevano servire nella gestione del lavoro successivamente all’aggiudicazione dell’appalto della metanizzazione all’Ati composta da Saipem, Bonatti, Mediterranea e Cer, nella trasformazione della stessa in consorzio con la divisione delle quote dei lavori. Il Raimondo mi presentò tale Avvocato Schifani Renato come un esperto del ramo. L’ho conosciuto per la prima volta a Parma quando ci recammo lì come ho detto nei precedenti verbali, nella sede della Bonatti e ricordo che fu lo Schifani assieme ai legali della Bonatti a preparare i patti parasociali. Lo Schifani era a conoscenza di tutte le fasi illecite di gestione della gara, e mi risulta che fosse molto inserito tra i consulenti del Comune di Palermo”.
Sulla base di queste e altre dichiarazioni di Lanzalaco, Schifani e altre 30 persone furono iscritte nel registro degli indagati il 13 marzo del 1996 per associazione mafiosa e altri reati. L’inchiesta fu archiviata nel marzo del 1998 ma quando a dicembre del 1998 il Gico della Finanza consegna finalmente l’informativa con alcuni riscontri, la Procura iscrive nuovamente Schifani e compagni. Il Gico scoprì che le ruspe erano di soggetti come il cugino del bossSalvatore Cancemi, Vincenzo Cancemi, e di una società di Vito Buscemi, arrestato e sottoposto a misure di prevenzione. Buscemi – per una coincidenza della quale gli investigatori non si sono accorti – abita nel palazzo di via D’Amelio costruito dalla cooperativa Desio nella quale Schifani e Buscemi sono stati soci per breve periodo prima di diventare condomini. Le Fiamme gialle recuperano anche l’elenco dei passeggeri dei voli Palermo-Bologna nel periodo precedente all’assegnazione della gara, quando Lanzalaco sosteneva di avere lavorato con Schifani ai patti sociali tra emiliani e siciliani. Nell’informativa si riporta l’elenco dei passeggeri del volo del 29 ottobre 1993: Schifani era seduto accanto ai fratelli Michele e Aldo Raimondo.Michele, morto nel 1995, era il politico Dc che aveva garantito a Lanzalaco e ai suoi amici “una quota di 5 miliardi di lire sui lavori della Bonatti”. Mentre Aldo era l’imprenditore che – sempre secondo Lanzalaco – andava in giro con le valigette piene di soldi per i consiglieri comunali. Secondo il pentito: “Quando chiesi al Raimondo quanto avevamo speso per tangenti, lui mi riferi che ci eravamo attestati su una quota di circa 500 milioni, che dovevano però essere intese come anticipazioni e che dopo l’aggiudicazione avremmo dovuto pagare la rimanente quota”. Il 9 novembre del 1999 il pm Sturzo iscrive ancora Schifani per associazione mafiosa e altri 9 reati, tra i quali il concorso in corruzione, concussione e abuso di ufficio “in relazione all’acquisto dei decreti di finanziamento e al pilotaggio dell’asta inerente l’appalto per la metanizzazione della città di Palermo e in particolare agli accordi raggiunti con Cosa Nostra per l’assegnazione della gara a un gruppo di imprese collegate con l’organizzazione mafiosa e agli accordi economici successivi per l’affidamento di noli autorizzati a imprese facenti capo direttamente o indirettamente a Cosa Nostra”.
Trascorrono due anni e la Procura stralcia alcuni indagati, che verranno arrestati nel 2003 per bancarotta aggravata dal favoreggiamento alla mafia e manda in archivio il filone principale. L’appalto della metanizzazione è salvo. Nessun reato nemmeno per Schifani: “considerato che in base alle dichiarazioni dei collaboratori e all’attività di riscontro del Gico non è stato addirittura possibile ricostruire in concreto quali interessi specifici o quali condotte in concreto abbia tenuto” i pm Lia Sava e Sergio Lari chiedono di archiviare “lo Schifani che è menzionato solo dal Lanzalaco come soggetto che avrebbe fatto parte di un gruppo che a Parma avrebbe redatto i patti parasociali per il contratto di appalto”.
Il 2 marzo del 2002 il Gip archivia Schifani, nel frattempo diventato capogruppo di Forza Italia al Senato.
Marco Lillo (il Fatto Quotidiano)
fonte : http://www.19luglio1992.com/
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