mercoledì 11 agosto 2010

Per chi suona la campana "New normal"?

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Alessandro Farulli

LIVORNO. C'erano una volta l'efficienza e il risparmio energetico. Avete presente quando la Marcegaglia in persona ne parlava come del più grande giacimento che avevamo a disposizione? Bene, praticamente sembra un secolo fa. Mentre invece, con la crisi che continua a mordere nonostante la ripresa, tanto che secondo la Fed, questa «sta calando» e «i tassi resteranno eccezionalmente bassi per molto tempo» , dovrebbe essere in cima all'agenda politica economica industriale del nostro Paese. Perché porterebbe a costi ridotti, e benefici sia per l'industria, sia per l'ambiente, sia per l'economia, sia per l'occupazione (ed è solo un esempio). Ma appunto servirebbe una politica industriale che però, come sostiene giustamente oggi Fabrizio Onida sul Sole24Ore e come greenreport.it dice da tempo, non esiste.
In Italia - spiega- la priorità delle priorità per una politica industriale lungimirante è il sostegno a quel circuito virtuoso ricerca-innovazione industriale-ricerca che da tempo fatica a decollare, anche se abbiamo di fronte opportunità enormi per valorizzare i nostri tecnici e laureati in campi come le "energie verdi" (che non devono essere un retaggio di Obama e della Merkel), il software ingegneristico applicativo, la robotistica, le nanotecnologie, le biotecnologie e tanti altri (si veda il programma di sviluppo dell'Istituto italiano di tecnologia). Come ci ricorda l'intervista di Luca Orlando a Gianfelice Rocca su questo giornale del 3 agosto, un "cambio di passo" su innovazione e mercato del lavoro è sempre più urgente per prevenire il tanto temuto declino».
Appurato quindi che questa può (e dovrebbe) essere la strada che l'Italia - fondatrice dell'Unione Europea ricordiamolo - intende seguire, rilanciando proprio in Ue questa sua ritrovata verve ecologica economica, servirebbe appunto sia una classe di governo che capisca l'importanza di questo passaggio; sia una classe imprenditoriale che creda in questa opportunità/necessità; sia un salto culturale che sia in grado di far maturare fino in fondo la portata di questa rivoluzione che è copernicana molto più di quello che si crede.
Come ben spiega Guido Viale sul Manifesto, partendo da quello che sta accadendo in Russia, «affrontare i cambiamenti climatici richiede una conversione radicale del sistema produttivo, dell'impiantistica, dei consumi e degli stili di vita intorno a cui si sono consolidate abitudini e aspirazioni della maggior parte della popolazione mondiale».
«Non si tratta - aggiunge - solo di definire obiettivi che cozzano con i miti produttivistici, consumistici e occupazionali dell'oggi (di questo, chi più e chi meno, sono capaci tutti). Il fatto è che una conversione ambientale di produzioni e consumi non può essere gestita con i tradizionali strumenti di governo: in particolare, con quelli messi in campo per far fronte alla crisi in corso: le politiche di bilancio per salvare le banche; gli incentivi al consumo per salvare l'industria dell'auto; le «grandi opere», nella speranza che rimettano in moto l'economia».
«L'economia dei combustibili fossili - continua e così si torna al tema iniziale - quella che ci ha portato alla situazione attuale e che ci sta trascinando verso un disastro irreversibile, è fondata sui grandi impianti: campi petroliferi e miniere, oleodotti, flotte di petroliere e navi carboniere, grandi raffinerie, grandi impianti di generazione, grandi reti di distribuzione dell'elettricità e dei combustibili. Gran parte dell''apparato produttivo mondiale, dall'agroalimentare alle costruzioni, dalla farmaceutica all'auto, è commisurata a queste dimensioni, anche se il modello non è più il grande combinato fordista, ma la rete che scarica rischi e costi su strutture decentrate, delocalizzate, e spesso evanescenti. Per gestire questi grandi impianti e queste grandi reti ci vogliono grandi società, grandi piramidi aziendali, grandi strutture di supporto tecnico, legale, pubblicitario e lobbistico, grandi risorse finanziarie: tanto grandi che i governi non riescono più a controllarle e hanno delegato le proprie prerogative persino, in sostanza, quella di «battere moneta», cioè di decidere quanto denaro deve circolare nel mondo - alla finanza internazionale e alle multinazionali; o a organismi internazionali, dalla Banca mondiale al Fmi, dal Wto alla Commissione europea, ancora più esposte dei governi nazionali al lavorio delle lobby».
Ed ecco il punto: «Per funzionare la green economy - qualsiasi cosa si intenda con questo termine - deve adottare uno schema opposto. Catturare l'energia del sole, del vento, delle onde marine, della biomassa senza devastare il territorio e mettere alla lame gli umani richiede un'impiantistica distribuita, decentrata, articolata sul territorio in base ai carichi da coprire e alla disponibilità delle risorse locali (...) Perché il complemento irrinunciabile di una transizione dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili è la promozione dell'efficienza energetica, che richiede interventi ancora più decentrati e articolati caso per caso: l'individuazione e l'eliminazione degli sprechi, la coibentazione degli edifici, l'introduzione di nuove tecnologie nelle apparecchiature domestiche e industriali».
Alla luce di queste affermazioni difficilmente contestabili, diventa paradossale persino per il Sole24Ore incensare - non darne notizia che invece è correttissimo ci mancherebbe altro - quanto sta accedendo nel North Dakota gridando al "miracolo" perché qui si è scampati alla recessione «grazie al petrolio» che ha trasformato l'economia agricola facendo cederle il passo al greggio.
In ultima analisi quindi appare a noi piuttosto evidente che il processo di maturazione di un nuovo paradigma economico che faccia perno sull'ecologia è ancora lontano dall'essere compiuto. Si va avanti a scatti e rinculi e l'assenza di una nuova narrazione politica, specialmente in Italia, in questo senso, nonostante le avanguardie ormai degli anni Settanta, rende il quadro ancora più fosco. Ma anche più aperto a chi sarà davvero in grado di portare avanti questa idea, ribadiamo, politica improvvisamente (e inaspettatamente) tornata "nuova".
A meno che non si voglia che il "new" sia quel "new normal" di cui parla il Sole ovvero l'accettazione che il mondo non sarà più come prima e quindi «senza lavoro per sempre» costruendo così un bell'alibi a chi ha deciso che è meglio non fare proprio un bel niente...

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