Emanuele Bompan
AMBIENTE. Gli studi di due università Usa negano la scomparsa del greggio e lanciano l’allarme: il petrolio si trova ancora nel mare, nascosto sotto la superficie e sui fondali. Il governo però continua a minimizzare i rischi.
La strana scomparsa del petrolio rimane uno dei tanti punti oscuri della vicenda del disastro ecologico della Deepwater Horizon nel golfo del Messico. È passato oltre un mese da quando il pozzo ha smesso di vomitare greggio, due settimane da quando la Casa Bianca ha proclamato che la maggior parte dei 5 milioni di barili di petrolio fuoriuscito era stata dispersa o stava evaporando, dando l’idea che il Golfo, duramente provato, stesse entrando in un periodo di convalescenza ma che il peggio fosse ormai passato. Tanto che nei giorni scorsi la maggior parte delle aree di pesca sono state gradualmente riaperte.
La strana scomparsa del petrolio rimane uno dei tanti punti oscuri della vicenda del disastro ecologico della Deepwater Horizon nel golfo del Messico. È passato oltre un mese da quando il pozzo ha smesso di vomitare greggio, due settimane da quando la Casa Bianca ha proclamato che la maggior parte dei 5 milioni di barili di petrolio fuoriuscito era stata dispersa o stava evaporando, dando l’idea che il Golfo, duramente provato, stesse entrando in un periodo di convalescenza ma che il peggio fosse ormai passato. Tanto che nei giorni scorsi la maggior parte delle aree di pesca sono state gradualmente riaperte.
Eppure il timore di biologi e ufficiali federali riguardo al destino del petrolio scomparso non si è mai del tutto sopito. Così come lo scetticismo sulla possibilità di una rapida guarigione degli ecosistemi delle zone costiere. La conferma di queste paure è arrivata ieri da due distinti rapporti scientifici, stilati da università americane che denunciano: il petrolio non è affatto sparito, è ancora la fuori e continua a fare danni.
Il primo studio che nega la scomparsa del greggio arriva dalla University of Georgia e afferma che tre quarti del petrolio fuoriuscito si trovano sotto la superficie marina. Il rapporto è basato sulle stime diffuse il 2 agosto dal governo statunitense che, secondo il team di scienziati georgiani, sono state ampiamente fraintese. La seconda analisi, dell’Università della South Florida, rivela invece che nelle aree nordorientali del Golfo varie lingue di greggio si sono sedimentate in canyon marini intossicando i fondali, ricchi di elementi nutritivi per i pesci.
Posizioni che contraddicono l’Agenzia degli oceani e dell’atmosfera (Noaa), e che sostengono invece quella della Protezione ambientale l’Epa, l’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, che ha sempre ribadito la mancanza di certezze sui reali effetti di lungo periodo della fuoriuscita di petrolio. In un’intervista rilasciata al nostro giornale lo scorso 17 luglio, Melanie Driscoll, biologa dell’agenzia, aveva dichiarato che «è impossibile conoscere l’impatto del greggio e dei disperdenti nel lungo termine». Impugnando i risultati di alcune sue analisi, il governo Usa ha preferito però procedere ad allentare il livello d’allarme, temendo di aggravare la crisi economica che ha colpito l’area.
Così tanti abitanti e pescatori sono tornati a bordo dei propri pescherecci nelle zone colpite dal disastro e la Noaa ha autorizzato lunedì la ripresa della stagione della pesca dei gamberetti. Molti dei pescatori locali hanno mostrato tuttavia scetticismo. Sebbene gli studi degli uffici federali non abbiano trovato gamberi contaminati, in Louisiana si teme che se i test si rivelassero inadeguati l’industria potrebbe venire colpita fatalmente. Nella preoccupatissima America basterebbe infatti un bambino intossicato e i gamberi del Golfo sarebbero banditi per anni, senza distinzione dell’area di provenienza, distruggendo un mercato da 200milioni di dollari l’anno.
Le paure non sono affatto infondate, avvertono gli esperti, visto che i possibili problemi tossicologici negli organismi viventi potrebbero verificarsi tra settimane o mesi. Ne è prova un articolo apparso sul blog planetsave.com, che racconta di un gruppo di biologi che avrebbe trovato petrolio in numerose larve del granchio blu, specie chiave dell’ecosistema del Golfo. Una dimostrazione che il petrolio, sebbene ridotto in piccoli agglomerati, continuerebbe a contaminare gli animali, risalendo la catena alimentare, con conseguenze potenzialmente disastrose negli anni a venire. Un’esagerazione come pensano a Washington? Certo bisogna tenere conto delle capacità della natura di rigenerarsi.
Ma la scienza non è sempre consapevole della complessità dei fenomeni nel lungo termine. «Per quanto ne so i dinosauri potrebbero essersi estinti per una fuoriuscita di petrolio» è il commento ironico di Tony D. su un blog di pescatori di New Orleans. Di certo c’è che il disastro di Macondo è avvenuto in un contesto di gravissimo degrado ambientale: il delta del Mississipi, il settimo del mondo per grandezza, con le sue paludi di acqua dolce sta morendo a causa dell’uomo. I profondi canali che l’industria petrolifera ha scavato nella palude per portare oleodotti e materiali alle piattaforme hanno spalancato le porte al mare, che è entrato nella palude uccidendola.
Già ai tempi di Katrina si stima che l’erosione della costa amplificò i danni subiti da New Orleans, privandola della difesa naturale che gli acquitrini erbosi rappresentavano. è in questo contesto che governo federale e statale conducono la loro campagna di “normalizzazione”. I tumori tanto arriveranno dopo. Una vera e propria strategia del gambero.
fonte : http://www.terranews.it/
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