giovedì 19 agosto 2010

La Cina è lontana - Anteprima Liberazione del 19 agosto 2010.

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di Nicola Melloni 
La Cina è vicina, si diceva negli anni ’60, quando la breve stagione della Rivoluzione Culturale sembrava essere il nuovo sol dell’avvenire, la purezza del socialismo movimentista ed anti-burocratico. La Cina entrava, per la prima volta, nell’immaginario collettivo, resa simile a noi da una ideologia prettamente occidentale ma condita in salsa squisitamente cinese. Passata quell’effimera avventura, il mondo ha preso a girare in tutt’altra direzione, e così pure la Cina. Con una nota di continuità da non sottovalutare. Le riforme iniziate da Deng nel 1978 hanno nuovamente preso a modello un altro feticcio occidentale, il mercato questa volta, ma ancora una volta mediato da una visione ed un carattere inconfondibilmente cinese – il modo di produzione asiatico, lo chiamava Marx.
La dirigenza di Pechino, in largo anticipo sulle leadership degli altri paesi socialisti, capì già allora che l’economia di piano era inefficiente e non poteva garantire la prosperità alla terra di mezzo ed avviò un largo ciclo di riforme strutturali evitando però la furia ideologica e iconoclasta che si sarebbe scatenata dopo il 1989 in Russia e nei paesi dell’Est europeo. Mercato sì, ma con moderazione. Privatizzazioni dal basso e non per legge. Proprietà statale dei mezzi di produzione rimpiazzata dalla proprietà collettiva e livello locale – le comunità rurali sono diventate padrone di moltissime nuove industrie. Sistema di prezzi solo parzialmente liberalizzato per garantire un prezzo politico a quei prodotti indispensabili non solo per la vita quotidiana dei cinesi ma anche per le necessità strategiche dell’industria. Un tipico esempio è il tasso di cambio bloccato. Mentre da più parti si invoca il passaggio ad un cambio “free-floating”, in cui il prezzo viene stabilito dal mercato, Pechino continua ostinatamente a mantenere un tasso fisso, deciso dalla Banca Centrale, impedendo la rivalutazione del remnibi e pompando in tal maniera il settore manifatturiero, facilitato nella produzione di merci a basso costo. 




Attraverso queste riforme economiche la Cina è così diventata la fabbrica del mondo, approfittando dell’inesauribile afflusso di forza lavoro dalle campagne verso le città unita alla capacità di attirare investimenti esteri, sempre però sotto il controllo attento dello stato cinese. Ormai tutte le grandi multinazionali delocalizzano in Cina ma sono costrette a farlo in partnership con aziende locali in modo che le nuove tecnologie non vengano impiantate sopra un corpo estraneo ma assorbite dall’industria nazionale. Dunque, una ricetta per il successo economico abbastanza semplice che pareva addirittura vetusta pochi anni fa – investimenti più lavoro. 
Semplice ma di successo: il ciclo economico cinese, apertosi più di trent’anni fa, non conosce interruzioni, un fenomeno senza precedenti storici. 
Mentre la Cina creava le basi della sua accumulazione originaria, in Occidente si era già passati alla società post-industriale, la società dei servizi in cui la fabbrica, si sosteneva, era un’anticaglia del Ventesimo secolo. In fondo il trentennio di egemonia neo-liberista si è basato proprio sulla rapida finanziarizzazione dell’industria. La classe operaia veniva sconfitta, la produzione delle merci si spostava dove i sindacati non esistevano e dove la mano d’opera fosse schiavizzata a livelli Ottocenteschi mentre il controllo organizzativo (e dunque l’appropriazione del profitto) rimaneva fermamente in mano occidentale. La ricchezza era una creazione delle banche e non del lavoro. Un modello in realtà insostenibile perché la creazione di moneta finanziaria non può essere perpetua in quanto non sostenuta dalla creazione di ricchezza reale – la produzione di merci. 
Questa è sempre stata la leva dell’accumulazione capitalistica, trasformazione delle merci attraverso il lavoro che in questa maniera assumono un valore superiore a quello iniziale, creando dunque il profitto del capitalista. La crescita a basso costo della Cina ha permesso a noi Occidentali di consumare senza produrre, attraverso il trasferimento di ricchezza dal sud del mondo verso il nord. Ma i nodi ad un certo punto vengono al pettine. Un’economia che non crea ricchezza (o quantomeno ne crea meno di quello che consuma) non può continuare a vivere sopra i propri mezzi. 
Certo questo sbilanciamento globale – est produttore e ovest consumatore – è stato uno dei segreti della crescita cinese. Se è vero che le nostre economie sono insostenibili è altrettanto vero che un generale riequilibrio metterebbe in difficoltà le industrie cinesi, così dipendenti dai mercati esteri. Bisogna però tenere in considerazione che, consci di questa dipendenza, i dirigenti cinesi stanno muovendo la loro economia in altre direzioni. Non più solo produttori di merci a basso costo ma innovazione tecnologica. Non più solo investimenti occidentali in Cina, ma investimenti cinesi in Occidente, comprese le acquisizioni di grandi industrie americane ed europee. E soprattutto, sviluppo del mercato interno. Negli ultimi due anni, con il mercato americano in ginocchio, la crescita cinese non si è fermata. Le autorità di Pechino hanno messo in piedi una vera e propria politica anti-ciclica di stampo keynesiano. Altroché i nostri deficit aumentati per salvare le banche, finiti nelle tasche di pochi, incapaci di sostenere la domanda e di stimolare la produzione. 
La Cina ha fatto ben altro, gli investimenti pubblici hanno supportato consumo e produzione e l’economia cinese è uscita indenne dalle acque tormentate della crisi finanziaria, facendoci riscoprire il valore delle vere politiche keynesiane, anti-cicliche – risparmio nei periodi di crescita, spesa in quelli di crisi – e non di spesa improduttiva nei periodi grassi e di cinghia stretta durante quelli recessivi. Vista da qui, la Cina sembra lontana, irraggiungibile.


fonte : http://www.controlacrisi.org/

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