sabato 10 luglio 2010

L’Ilva compie 50 anni. Costellati da centinaia di morti in fabbrica e migliaia di “avvelenati” fuori

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Taranto, l’acciaio è stato un re. 
                        Un re assetato di sangue 

di Antonella De Palma (Liberazione del 10 luglio 2010) 
Luglio 1960. Mentre, da Genova alla Sicilia, l’Italia è attraversata dalla rivolta antifascista contro il governo Tambroni, a Taranto si pone la prima pietra del IV centro siderurgico dell’Iri. Cinquant’anni il 9 luglio, ma tentarne un bilancio, oggi, non è facile. 
E’ di questi giorni la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati per Emilio Riva, presidente della omonima società che 15 anni fa ha rilevato lo stabilimento dallo Stato, suo figlio Nicola, presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva, e altri due dirigenti, ritenuti responsabili di disastro ambientale colposo, avvelenamento colposo di sostanze destinate all’alimentazione, getto pericoloso di cose e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. C’è la raccolta di firme per un referendum consultivo che chieda la chiusura totale dello stabilimento o perlomeno dell’area a caldo e dei parchi minerali e che sta dividendo l’opinione pubblica e le forze politiche della città; ci sono le rivendicazioni delle associazioni ambientaliste e quelle della rete Alta Marea che denunciano una città martoriata dalle emissioni di veleni; ci sono i processi per le morti sul lavoro e quelle per amianto; c’è l’”Associazione 12 giugno” dei familiari delle vittime del lavoro che ci ricorda costantemente in quanti hanno un parente morto o ammalato a causa del ”posto sicuro” che l’Ilva ha garantito per qualche decennio; ci sono centinaia di lavoratori di nuovo in cassa integrazione. 

Eppure quando l’Ilva approdò a Taranto sembrò la soluzione ai gravi problemi economici della città. La crisi dell’industria navalmeccanica (concentrata nell’Arsenale militare e nei Cantieri navali), apertasi nel secondo dopoguerra principalmente a causa della sua incapacità di riconvertirsi da produzione di guerra ad altro, nel giro di poco più di un decennio aveva fatto precipitare i livelli di occupazione e aperto la via all’emigrazione. 
Da una monocoltura a un’altra: l’acciaio fu la risposta. Nell’Italia del boom economico della fine degli anni ’50 il mercato dell’acciaio sembrava destinato a un’espansione senza limiti; di conseguenza l’Iri ipotizzò la costruzione del IV centro siderurgico italiano a ciclo integrale, il più grande, che doveva produrre più di Cornigliano, Piombino e Bagnoli. 
Taranto rispondeva a tutti i requisiti necessari per la sua installazione: una posizione pianeggiante; un porto per l’attracco delle navi cariche di minerali e la partenza di quelle cariche di tubi e rotoli di acciaio; acqua di mare da utilizzare, una volta demineralizzata, per il raffreddamamento degli impianti; una cava di calcare, necessario per la fusione del minerale; tanta manodopera disponibile subito. 
Per la costruzione fu scelta un’area a nord della città, fra il porto e la linea ferroviaria. Seicento ettari di terreno su cui sorgevano piccole e medie aziende agricole, espropriati ai legittimi proprietari per far posto al progresso. Dopo il raddoppio dello stabilimento, concluso nel 1975, diventano mille e cinquecento, due volte e mezzo l’estensione di Taranto, situati a cinque chilometri dal centro della città, ma a poche centinaia di metri dal rione Tamburi. Ma, allora, non se ne preoccupa nessuno. Taranto, dicono tutti, sta finalmente uscendo da secoli di «immobilità, abbandono, rassegnazione, miseria». Ora si prospetta un’era di sviluppo e di benessere senza fine. 
Si innalzano costruzioni fino ad allora inimmaginabili, enormi: tubifici, altiforni, acciaierie, laminatoi e poi 50 chilometri di reti stradali e 200 di rete ferroviaria, nastri per il trasporto dei minerali dal porto ai parchi, dove si accumulano in scure colline che cominciano a spargere un polverino rossastro sulla città e sulla campagna circostante. 
L’acciaio è il re e il re fuma. E quanto più quelle ciminiere fumano tanto più la città si sente ricca. 
Ed è ricca, economicamente ma anche culturalmente, perché l’Italsider, così si chiama allora, gestisce un circolo culturale che porta a Taranto la migliore produzione internazionale delle arti figurative e dello spettacolo. Si preoccupa anche della formazione sportiva e ricreativa in genere dei suoi dipendenti, organizza viaggi ovunque nel mondo. Una stagione come quella dell’Italsider pubblica, da questo punto di vista, Taranto non l’ha più avuta. 
Il tributo che la città paga in cambio è molto alto. 
La fabbrica del progresso e della ricchezza ci impiega poco ad essere ribattezzata ”’u crepiente” dai lavoratori, il posto dove si crepa. 
Troppi muoiono a causa di incidenti sul lavoro, malattie professionali, amianto. Si ammalano anche quelli che non ci lavorano ma ne respirano l’aria, soprattutto gli abitanti del rione Tamburi. 
Sulle responsabilità della gestione pubblica per il disastro provocato dall’Italsider/Ilva si è taciuto a lungo. Si è detto che allora non si sapeva, che non c’era la mentalità ambientalista, che la sicurezza sul lavoro non era pratica prioritaria. Falso. Già nel 1964 il sindaco Conte si dichiara preoccupato dell’impatto che la fabbrica può avere sulla salute dei cittadini e sulla qualità dell’aria e delle acque, ma alle sue richieste di rassicurazioni l’azienda oppone «una specie di segreto che se non è quello militare quasi lo raggiunge». Ci si abitua anche al fumo: guardandone la direzione sappiamo da che parte soffia il vento e se la puzza ti investe allora è vento di terra, il mare è bello e d’estate val la pena andarci. 
Impossibile anche stabilire il numero preciso degli infortuni avvenuti là dentro, tantomeno di quelli mortali. Secondo dati Cgil, dall’inizio della costruzione fino al 1980 sono 130, ma altre indagini non ufficiali parlano di oltre 300. Dopo quella data, che forse non a caso è il 1980, l’anno che segna la sconfitta del movimento operaio e l’inizio della crisi del sindacato di lotta, è praticamente impossibile avere dei dati, se non cercando di ricostruirli attraverso i giornali. I morti sono sempre più soli, casi che l’azienda vuole liquidare cercando il patteggiamento con le famiglie, offrendo denaro e magari anche l’assunzione di un fratello, di un figlio. 
Un operaio in pensione mi racconta: «l’ultimo giorno di lavoro io mi girai feci il segno della croce: ”sono uscito con le mie gambe”. Il giorno dopo, se andavo con il mio tesserino, non si apriva più la porta automatica. Vieni subito cancellato. La tua matricola sparisce. Perché lì dentro sei un numero. Basta cambiare quello. Togli quello e metti l’altra matricola».


http://www.controlacrisi.org/

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