Sono passate due settimane dal disastro della Mavi Marmara, la nave della Freedom Flottiglia diretta a Gaza dove sono morti nove attivisti durante gli scontri con la marina militare israeliana. Nelle scorse settimane sono emersi alcuni elementi che hanno fatto chiarezza sulla dinamica dei fatti. Ma sono molte le domande che restano aperte.
E’ chiaro, per esempio, che alcuni degli attivisti fossero armati di coltelli, come dimostrano le foto prima pubblicate dal quotidiano turco Hurryet e poi censurate dalla Reuters in modo da fare sparire i coltelli e (pare) anche il sangue di alcuni soldati israeliani. Per vedere le immagini cliccate qui.
Ma non è chiaro se siano stati loro, come sostiene l’esercito israeliano, ad aprire le ostilità. E non è ancora del tutto chiarito, poi, se davvero i soldati israeliani abbiano agito per legittima difesa, ovvero per evitare un linciaccio in stile Ramallah, o se invece quei nove morti si sarebbero potuti evitare.
Per il momento - ma questa è una mia personalissima osservazione - mi sembra che sia l’esercito israeliano, sia gli attivisti della Marmara ci abbiano fatto entrambi una pessima figura.
Tanto pacifisti, forse, gli attivisti della Marmara non erano. Ma credo che dal punto di vista umanitario la questione sia un’altra.
E’ abbastanza chiaro, infatti, che l’obiettivo principale della flottiglia non era tanto portare generi di prima necessità a Gaza, quanto rompere l’assedio imposto da Egitto e Israele. Altrimenti, come ho già scritto, avrebbero accettato la proposta da parte di Israele di consegnare gli aiuti via terra.
Ma il loro era un obiettivo politico, non umanitario. Un obiettivo assai legittimo, quello di porre fine al blocco navale a Gaza, ma non per questo meno politico. E qui si arriva a una questione controversa: quanto è legittimo, o se non altro opportuno, unire la politica agli aiuti umanitari? Non si rischia così di violare il principio di neutralità degli aiuti umanitari?
L’associazione giornalistica Lettera 22 ha pubblicato una riflessione interessante di Gianni Rufini docente di aiuto umanitario all’Università di York. Che scrive:
Sfruttare l’aiuto umanitario a fini politici è oggi una delle azioni più ricorrenti, e potenzialmente pericolose, nelle relazioni politiche. L’umanitarismo, quell’idea universalistica per cui tutti abbiamo un uguale diritto all’assistenza, rimane l’unica area autenticamente “etica” nelle relazioni internazionali, il nucleo centrale e minimo del concetto stesso di “diritto”.
E ancora:
Freedom Flotilla ha sfruttato la causa umanitaria per un fine politico. Una causa nobile e condivisibile, che non aveva bisogno di travestirsi da azione umanitaria. Facendolo, ha reso più difficile la vita e l’azione degli umanitari veri. Da domani, fare assistenza in Palestina sarà ancora più difficile. Le organizzazioni verranno sottoposte a restrizioni di tutti i tipi, i visti per i cooperanti saranno limitati, le ritorsioni si moltiplicheranno. Il checkpoint per Gaza sarà chiuso sempre più spesso.
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