venerdì 9 settembre 2011

Il Radicale Libero - Federico Aldovrandi, quando è lo Stato a sbagliare

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Domenica 25 settembre 2005, ore 5: la madre di Federico Aldrovandi, anni 18, si sveglia, si chiede se il figlio sia rientrato, le sembra di udire un rumore in camera, si riaddormenta. Alle 8 si alza e si rende conto che il figlio non c'è: "Ho cominciato a chiamarlo e ad inviare messaggi. Nulla. Non era possibile che non rispondesse. Se tardava mi avvisava sempre".
"Diceva che lo stressavo ma non voleva farmi stare in pensiero. Mi aggrappavo all'idea che avesse solo perso il cellulare. Poi l'ha chiamato anche suo padre. Sul cellulare di Federico il padre è memorizzato col solo nome, Lino. Una voce ha risposto. Ha imperiosamente chiesto chi fosse al telefono, ed ha chiesto di descrivere Federico. Poi si è qualificato come agente di polizia, ed alle nostre domande ha risposto che avevano trovato il cellulare su una panchina dalle parti dell'ippodromo e che stavano facendo accertamenti. Ed ha riattaccato".
A quell'ora Federico era già morto; come, ce lo spiegano la sentenza di primo grado, prima, quella di appello, poi, emessa a Bologna il 10 giugno 2011: in quattro poliziotti, tre uomini e una donna, l'hanno "bastonato di brutto per mezzora", spaccandogli la testa, lo scroto, rompendogli addosso due manganelli, e poi, per finire, sedendogli sopra e schiacciandolo fino a spaccare il suo cuore.
Non contenti, rendendosi benissimo conto di ciò che avevano commesso, hanno finto di preoccuparsi per un ragazzo di 18 anni morto a causa loro chiamando un'ambulanza, tenendolo ancora schiacciato quando era già morto o in fin di vita per convincere gli infermieri accorsi che c'era ancora il rischio che il ragazzo si rivoltasse essendo un "pazzo furioso", hanno tentato di attribuirne la morte alle sostanze assunte dal ragazzo nella serata, hanno mentito su tutto, orari, modalità, svolgimento dell'azione, cercato di intimidire i testimoni, manipolato i fatti, con l'aiuto della intera Questura di Ferrara che, a dire degli stessi giudici, si è resa protagonista di "attività di falsificazione e distorsione dei dati probatori poste in essere sin dalle prime ore successive all'uccisione di Aldrovandi".
I giudici di Corte di appello di Bologna indicano chiaramente le responsabilità degli autori del massacro, della Questura, e della stessa pm Mariaemauela Guerra, il primo magistrato incaricato del caso (e che ha querelato la madre di Federico e alcuni giornalisti per presunta diffamazione aggravata nei suoi confronti), parlando di "indagini preliminari iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo sostituto procuratore".
Due sentenze, quindi, concordi in assoluto, nell'assegnare, ai quattro poliziotti, la condanna di primo grado a tre anni e mezzo per omicidio colposo.
Torniamo indietro, al 25 settembre 2005, e al racconto della madre di Federico: "Immediatamente ho cercato in Questura, e ho cercato anche ripetutamente un amico che ci lavora. Nulla. Il centralinista rispondeva: c'è il cambio di turno... non sono informato, appena avremo notizie chiameremo noi ... Niente per altre tre ore!!!! Passate nell'angoscia e nelle telefonate frenetiche agli ospedali, ai suoi amici e di nuovo ripetutamente alla questura. Nel frattempo Stefano è accorso in bicicletta alla ricerca del fratello. Ringrazio il cielo che non sia andato nel posto giusto. La polizia è venuta ad avvisarci solo verso le 11. dopo che lo avevano portato via. Il suo corpo è rimasto sulla strada dalle 6 alle 11. E non mi hanno chiamata. Era mio figlio. Nessuno ha il diritto di tenere una mamma lontana da suo figlio! ... Molto tempo dopo ho riavuto i suoi abiti. Portava maglietta, una felpa col cappuccio e il giubbotto jens. Sono completamente imbevuti di sangue. Hanno detto che non voleva farsi prendere. Che ha lottato ed è salito anche in piedi sulla macchina della polizia. I medici hanno riferito che aveva lo scroto schiacciato, una ferita lacero-contusa alla testa e numerosi segni di percosse in tutto il corpo. Ho potuto vedere solo quella sul viso, dalla tempia sinistra all'occhio e giù fino allo zigomo, e i segni neri delle manette ai polsi. L'ho visto nella bara. Il suo corpo non sembrava più allineato e simmetrico. Il mio bambino era perfetto, e stupendo. L'hanno distrutto ... E la polizia mi raccontava che era drogato. Che si era fatto male da solo. Che tutto questo era successo perché era un povero tossico e noi sfortunati ..."
Poniamo un artificio retorico: immaginiamo quattro ragazzi che "bastonano di brutto per mezzora" un poliziotto, causandone la morte; se la caveranno con tre anni e mezzo? e andiamo ancora oltre, perchè la vicenda non è conclusa.
La vicenda di Federico è raccontata in un blog, dove la madre racconta, si racconta, informa sullo stato delle indagini; un giorno scrive di aver incontrato "uno di quelli che hanno tolto la vita a Federico (la frase originaria, poi sostituita nel giro di qualche ora, era "uno degli assassini di mio figlio", ndR), tranquillo e allegro con una ragazza". La madre di Federico prosegue dicendo che "quando vedo uno di loro mi manca il fiato, come a mio figlio. Mi si ferma il cuore, come a lui. Non riesco più a respirare, non so reagire. Vorrei urlare, picchiare, uccidere, ma non ne sono capace. Posso solo andare via e piangere. Andare via per non mostrare le lacrime proprio a loro. Impuniti. Per ora". Il procedimento a carico dei quattro poliziotti attendeva, infatti, ancora la sentenza definitiva di condanna o di assoluzione.
A seguito di queste parole, la madre di Federico viene denunciata per diffamazione e per istigazione a delinquere, prima da Enzo Pontani, Monica Segatto e Luca Pollastri (tre dei protagonisti dell'azione di polizia, procedimento già archiviato), ora, agosto 2011, a sentenze di primo e secondo grado emesse, dal quarto protagonista, Paolo Forlani, ancora, a tutti gli effetti, appartenente alla Polizia di Stato, come egli stesso fa rilevare nella denuncia.
Non tutti i poliziotti sono uguali, ma tale comportamento nei confronti di una madre che chiede "solo" verità e giustizia non giova, in primo luogo, proprio ai poliziotti che onestamente svolgono il loro difficile lavoro.
Claudia Sterzi


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