sabato 19 febbraio 2011

Non è facile essere donne

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di Rosy Bindi



Non è facile essere donne in questo momento della nostra storia e del nostro Paese. È triste dirlo ma in poco tempo sono sono state rimesse in discussione le fatiche di migliaia di donne che, negli ultimi 60 anni, hanno lottato perché si potesse vivere come uguali nella vita pubblica e in quella privata.


Non voglio dire che ci fossero riuscite completamente, perché il cammino verso una vera uguaglianza di diritti e di opportunità è ancora lungo. Ma la strada era tracciata e lo dimostrano le donne che, anche se con grande fatica, sono entrate a pieno titolo nel mondo del lavoro , hanno conquistato capacità e visibilità, si sono distinte nelle professioni, hanno ottenuto livelli alti negli studi, mediamente più alti degli uomini, come dicono tutti i dati. Invece ci ritroviamo di colpo ricacciate in una dimensione di arretratezza reale e simbolica che non può non preoccupare seriamente, in una riedizione persino degradata della funzione ancillare a cui secoli di dominio maschile ci avevano relegato.


La crisi economica e la messa in discussione dei diritti acquisiti incide non poco su questo arretramento, ma quello che vale la pena di sottolineare è la profonda crisi culturale che tocca in maniera virulenta l'Italia. Ambedue le crisi, però, non sono delle fatalità a cui bisogna soccombere in silenzio, ma sono anche frutto della gestione della politica, delle sue decisioni e del clima in cui vive da anni questo Paese.


L'immagine della donna che si è imposta in questi ultimi tempi è quella sconcertante di una creatura subordinata, che punta tutto sul suo aspetto fisico , vittima di modelli televisivi ma determinata a farli propri per raggiungere quello che crede essere "Il potere" e che consiste, in ultima analisi, nella visibilità su un qualsiasi palcoscenico pubblico: dalla televisione alla politica. Persino gli studi, spesso universitari e ben riusciti, sembrano subordinati a questa funzione. Nel bel documentario "Il corpo delle donne" di Lorella Zanardo c'è una scena che racconta tutto. Una ragazza che partecipa a un concorso di bellezza per una selezione televisiva, dichiara decisa: «Ho studiato quattro anni alla Bocconi, ho fatto dei master, sono stata dirigente d'impresa. Oggi, il prodotto, sono io! E lo vendo sul mercato dello show-business». E, per come vanno le cose, potremmo aggiungere: anche sul "mercato della politica".



Infatti assistiamo a questo nuovo protagonismo delle donne nella vita pubblica che ha fatto venire alla ribalta veline, escort, scambi tra sesso e carriere che la modernità non conosceva in questi termini e in questa quantità. Che se ne sia fatto agente e promotore un uomo politico di primo piano aggiunge mortificazione allo sconcerto. Quello che racconta la cronaca di questi giorni non merita altre parole, ma non si può non sottolineare che Berlusconi ha aggiunto al vecchio binomio "sesso e potere" qualcosa di più. Con un automatismo irresponsabile, frutto di arroganza ma anche di spudorata ignoranza dei meccanismi della partecipazione alla vita pubblica e della responsabilità del governare, ha confuso compensi per prestazioni alla sua persona con prebende pubbliche. Ha ringraziato le donne che gli hanno concesso favori a pagamento con l'offerta di candidature, ha portato ragazze completamente ignare all'enorme responsabilità di amministrare questo Paese.


È una realtà sconcertante che sul piano simbolico aggiunge anche un fattore di contaminazione culturale e sociale. Con questo comportamento, Berlusconi ha offerto al corpo femminile - solo al corpo purché bello, giovane e attraente - una patente di rispettabilità e di implicita capacità. Lo ha isolato dallo studio, dalle competenze, dalle inclinazioni coltivate con sacrifici e dedizione. Come nessuno si era mai permesso, ha diviso corpo e mente, attrattiva e cervello, apparenza e capacità reali. Ha istituito un reclutamento (a cui purtroppo anche altri si sono in qualche misura adeguati) basato sull'attraenza fisica e sulla condiscendenza intellettuale, una cooptazione che chiede alle donne adesione e passività, o addirittura disponibilità sul piano personale, negando così nei fatti il valore della competenza e della passione politica. Ha insomma portato nella politica quello che già aveva imposto al Paese attraverso il suo dominio mediatico e vent'anni di modelli televisivi esposti alle giovani generazioni. Ha costruito per loro un equivoco in cui cadono le più fragili e inconsapevoli, convinte di poter usare a loro vantaggio quella che è stata, nei secoli, una condizione di inferiorità culturale e sociale. E quindi anche politica.


C'è una responsabilità delle stesse donne in questa deriva? Forse sì. E ammetterlo ci può aiutare a reagire. È una responsabilità che si compone di più elementi: difficoltà a essere solidali fra di loro, a fare "squadra" come avviene normalmente nel mondo maschile; sfiducia nelle proprie possibilità se non si è accompagnate dalla protezione di un uomo; non aver tutelato a sufficienza le conquiste ereditate dalle generazioni precedenti, considerandole acquisite una volta per tutte. E, soprattutto, un difficile rapporto con il potere, con la radice maschile del potere. 

Forse bisognerebbe ricominciare dalla famosa affermazione di Simone De Beauvoir: «Donna non si nasce, si diventa», che negava una predestinazione subordinata di genere e incitava a assumersi la responsabilità del proprio modo di essere donne. Ma va anche detto che ci sono ancora anticorpi pronti a scattare quando il disprezzo per le donne diventa insostenibile, quando il degrado raggiunge questi livelli. Lo vediamo in questi giorni, nello sconcerto di molte donne, nello sforzo di reagire e di ricominciare insieme.


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