Tra ieri sera e stamattina, a Torino, si sono svolti due eventi molto interessanti: ieri sera Sonia Alfano, Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi hanno tenuto una conferenza su mafia e Stato, mentre stamattina è stato inaugurato presso l’ITIS Levi il nuovo Auditorium Beppe Alfano, intitolato al padre di Sonia.
Ieri sera, a sala strapiena, si sono ripetute quelle verità che per noi sono ormai scontate, ma che fuori dai nostri circoli lasciano ancora le persone con un senso di stupore e persino di incredulità. Tra le chicche, Sonia ha raccontato del suo incontro in carcere con Totò Riina, che parlando di Berlusconi le ha detto “iddu c’a futtiu” (“quello ci ha fregato”); vari mafiosi le hanno chiesto come mai loro stanno in carcere mentre “quelli di Roma” sono tutti liberi. Genchi ha ricordato che, all’epoca, i circoli di Forza Italiaa Brancaccio e Misilmeri sono stati aperti prima ancora che aprisse la sede provinciale del nuovo partito, creati da tal Lalia che, come da tabulati, intratteneva conversazioni telefoniche con Spatuzza e altri mafiosi riconosciuti; e che costui cominciò a chiamare persone che poi sarebbero divenute esponenti siciliani di Forza Italia, le quali poco dopo chiamavano un numero privato della casa romana di Berlusconi. (Del resto Dell’Utri, l’uomo “senza cui Forza Italia non sarebbe esistita”come disse lo stesso Berlusconi, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa…)
Insomma, chi voglia aprire gli occhi può sapere ormai con certezza che le stragi di Capaci e di via D’Amelionon furono stragi di mafia, ma stragi di Stato eseguite dalla mafia, nell’ambito del passaggio di mano del potere tra la prima e la seconda Repubblica. Abbiamo un Presidente del Senato che è stato socio o consulente di mafiosi acclarati e unMinistro della Giustizia che è stato fotografato al matrimonio della figlia di un boss: ma che volete ancora?
Tuttavia, per me è stato meglio l’incontro di stamattina; un incontro in cui Sonia Alfano ha parlato a lungo della storia del padre, commuovendosi a più riprese. E’ bene dire qualche cosa su questa storia poco conosciuta, perché per noi, da qui, le vittime di mafia appaiono sempre lontane; e la tragedia non è, come noi crediamo, la morte in sé, ma tutto ciò che viene prima e che viene dopo.
Beppe Alfano era un insegnante con l’hobby del giornalismo; oggi sarebbe un blogger. Cominciò a fare inchieste sugli scandali del paese in cui viveva, Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina; svelò giri di soldi che non doveva toccare. Gli offrirono 39 milioni di lire per tacere, e lui li rifiutò; allora gli dissero che sarebbe morto entro il 20 gennaio. Per un paio di mesi visse sapendo di dover morire, e ogni giorno i suoi familiari si chiedevano se sarebbe stato quello buono; alla fine fu ucciso con tre colpi di pistola l’8 gennaio 1993.
Il giorno dopo, le compagne di studi di Sonia, che frequentava l’università a Palermo, la chiamarono per dire che i loro genitori avevano loro vietato di vederla ancora. L’intero paese fece capire alla famiglia Alfano che non era più gradita, e una settimana dopo si trasferirono di corsa a Palermo, dove non conoscevano quasi nessuno. Nè lo Stato nè altri assistettero la famiglia economicamente o psicologicamente.
Il processo fu anche peggio; il loro avvocato, il famoso Galasso, smise di presentarsi in aula, e Sonia, irritualmente, si dovette fare l’arringa da sola. A un certo punto un avvocato della difesa la chiamò a testimoniare e le chiese se suo padre avesse mai abusato di lei, visto che in paese “si diceva” che fosse pedofilo (o adultero, o puttaniere: tutte voci messe in giro dalle cosche). In un altro momento della lunghissima vicenda giudiziaria (in parte ancora in corso) i giudici dissero che mancavano le prove del collegamento tra gli esecutori e i mandanti; i carabinieri del paese dissero che “non riuscivano a trovare niente”, nonostante queste persone fossero sempre in giro per le vie. Alla fine Sonia fu costretta a introdursi di sera nel cimitero, l’unico punto da cui si poteva vedere l’interno del capannone dove si riunivano i mafiosi, e a trovare lei le prove osservandoli.
La piazza dove abitava la famiglia Alfano è stata in teoria intitolata a Beppe Alfano; in teoria, perché il Comune non ha mai provveduto ad apporre le relative targhe. Qualche giorno fa, qualcuno ha scritto con la vernice sul selciato: “VIVA LA MAFIA”. I parenti di Sonia sono andati a cancellare la scritta, e sono stati insultati dagli abitanti del palazzo di fronte. Ogni anno, la famiglia cerca di organizzare una commemorazione in paese, e ogni anno i presidi si rifiutano di farvi partecipare i ragazzi delle scuole, con giustificazioni come “sono già andati al cinema la settimana scorsa, non possono fare troppe assenze”. L’ultima volta, nell’auditorium da 500 posti, c’erano 12 persone. Intervistati di nascosto, alcuni ragazzi del paese hanno risposto che non sapevano bene chi fosse Beppe Alfano: in paese si dice che “forse era un giornalista, o forse un puttaniere”.
Io so che leggendo queste cose siete inorriditi – e di storie così ce n’è ancora, e ancora, e ancora: la storia di Rita Atria, quella di Graziella Campagna, quella, particolarmente terribile, di Giuseppe Francese. Storie in cui una persona sta da sola con l’onestà, e il potere sta dall’altra parte; e di fronte hanno uno Stato che non sa mai scegliere da quale parte stare.
Solo, di una cosa vi devo pregare: non pensate, come pensano quasi tutti al Nord, che queste siano storie di terre lontane; non osservate queste persone come si fa coi leoni nelle gabbie, un brivido e via. La criminalità organizzata è tutto attorno a noi; c’è la ndrangheta a Rivoli, c’è la ndrangheta a Moncalieri, e attenzione, non sono per strada a spararsi, ma sono nelle istituzioni, esprimono politici e assessori nel centrodestra e nel centrosinistra, sono immischiati in tutti gli appalti, nella Tav, nei nuovi quartieri. Il fatto che da noi non si spari è ancora più preoccupante: vuol dire che le cosche hanno trovato un loro spazio consolidato nell’amministrazione della zona in cui viviamo. Comunque anche qui, contrariamente a quel che pensano in molti, Bruno Caccia non fu ucciso dalle BR ma dalla ndrangheta; e prontamente dimenticato.
Sarebbe bello se anche da noi, come in Sicilia, ci fossero così tante persone che lottano contro le cosche – ma quelle nostrane, non quelle lontane; avendo la consapevolezza di trovarsi contro anche ampie fette dello Stato. Nel frattempo, informare è cosa importante; perché pochi, troppo pochi, sanno cosa succede veramente.
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