mercoledì 29 giugno 2011

Il futuro è un'alga?

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Pietro Greco

Ormai è chiaro a tutti. Occorre trovare un'alternativa al petrolio. Un'alternativa che abbia tutte le caratteristiche positive dell'olio nero (facilità di trasporto e di utilizzo), ma non abbia le caratteristiche negative: che sia, cioè, rinnovabile e "carbon free". Dirimente è, poi, il costo. Chi si candida a sostituire il petrolio deve avere un prezzo competitivo e, possibilmente, stabile.
Non è facile trovarlo "il" sostituto. Ma nel cesto dei candidati possibili spiccano da tempo i biocombustibili. Per molti motivi: ci sono già le tecnologie che consentono di produrli in discreta quantità a partire da piante comuni - come barbabietole da zucchero, soia, colza, mais - e metterli sul mercato; possono sostituire il petrolio e i suoi derivati non solo nella produzione di energia elettrica ma anche direttamente nel sistema di trasporto. In Brasile, per esempio, usano da molti anni l'etanolo, estratto dalla biomasse, al posto delle benzina, ricavata dal petrolio.
Tuttavia in natura non esistono pasti gratis. E anche i biocombustibili hanno dei limiti, economici ed ecologici: i costi di produzione non sono bassissimi; consumano molto spazio; competono con la produzione di alimenti e concorrono così a far aumentare il prezzo delle derrate agricole; non è scontato che siano del tutto "carbon free".
Ecco perché una parte della comunità scientifica è interessata a cercare "more advanced biofuels", biocombustibili più avanzati. A questa ricerca la rivista Nature ha dedicato uno speciale. Tra le piste che si stanno battendo nella studio dei biocombustibili di nuova generazione - ad alta resa, basso costo e basso impatto ambientale - c'è quello che porta sott'acqua. Tra le alghe. È lì, sostengono molti, che c'è il futuro dei biocarburanti. E non solo.
I motivi a supporto della candidatura delle alghe quale sostituto privilegiato del petrolio sono molti. Il primo è che la loro produttività potenziale è enormemente più alta di quella delle piante terrestri, perché crescono più rapidamente. Si calcola, infatti, che le alghe possano fornire fino a 61.000 litri di biocombustibile per ettaro contro i 200/450 litri ottenuti finora da piante coma la soia o la colza (in particolare, la canola).

È grazie a queste caratteristiche che, si calcola, con una superficie coltivata ad alghe di 9,5 milioni di ettari - equivalente a quella del Portogallo - si potrebbero produrre 370 miliardi di litri di biocombustibile e alimentare il sistema di trasporto dell'intera Europa. E che gli Stati Uniti, mettendo a disposizione un'area pari al 5,5% della loro superficie totale, potrebbero alimentare la metà del loro sistema di trasporto.
Il bello è che le alghe possono essere fatte crescere a terra in zone utilizzate oggi dall'agricoltura e di scarso valore paesistico. O possono essere fatte crescere in laghi naturali o in mare, senza occupare terre emerse.
Le alghe oggi più attraenti, ci ricorda Nature, sono organismi monocellulari capaci di fotosintesi: in altri termini, grazie all'energia solare, trasformano anidride carbonica, idrogeno (ricavato dall'acqua) e azoto (ricavato dai nutrienti) in carboidrati, lipidi (grassi) e proteine. Se poi le tieni a stecchetto, ovvero se elimini i nutrienti dal loro ambiente di crescita, le alghe modificano il meccanismo di fotosintesi in modo da aumentare la produzione di lipidi. A questo punto può iniziare il loro utilizzo.
Con una centrifuga le separi dall'acqua. Le cellule disidratate si aprono e si possono estrarre con semplici procedure gli oli da trasformare in combustibile a base di idrocarburi. Ma per le alghe, come per il maiale, non si butta via niente. È possibile utilizzare le proteine e i carboidrati rimanenti nell'industria farmaceutica o nell'allevamento, per alimentare gli animali.
Tutto questo sarebbe bello se non fosse estremamente macchinoso e costoso. Coltivare le alghe nel mare o nei laghi naturali riduce la produttività per ettaro e aumenta i costi. Coltivare le alghe a terra comporta l'allagamento di grandi aree, con un enorme consumo di acqua. Si calcola che se gli Stati Uniti utilizzassero davvero il 5,5% del loro territorio per la coltivazione delle alghe avrebbero bisogno di una quantità di acqua tre volte superiore a quella necessaria a mantenere il loro intero sistema agricolo.
La ricerca, dunque, si pone tre obiettivi: abbattere i costi, abbattere il consumo di spazio, abbattere il consumo di acqua. Per abbattere i costi, come sostiene Nigel Quinn, un ingegnere agrario del Lawrence Berkeley National Laboratory degli Stati Uniti, occorre utilizzare le alghe con diverse finalità: come produrre biocombustibili, trattare le acque reflue e produrre commodities per l'industria chimica e farmaceutica.
Un modo per abbattere costi e consumi di acqua dolce è quello di far crescere le alghe non in uno spazio aperto a terra (dove è forte l'evaporazione) o a mare, ma in fotobioreattori chiusi, dove anidride carbonica è fatta circolare in una miscela di alghe e acqua. Il sistema avrebbe il vantaggio di poter utilizzare anidride carbonica proveniente da una qualche vicina industria o, comunque, da una fonte antropica.
In Cina stanno lavorando molto a questo progetto, ma non mancano le difficoltà. Il fotobioreattore esposto alla luce del Sole si riscalda e, per raffreddarlo, occorre acqua. Cosicché uno dei vantaggi potenziali rischia di essere eluso. Inoltre anche insufflare anidride carbonica costa. E dunque anche l'altro vantaggio è in forse.
Un sistema che stanno sperimentando alla Solazyme, in California, ribalta il processo. Invece di esporre le alghe alla luce e sottrargli nutrienti, le si tiene al buio e le si alimenta con zuccheri. In queste condizione le alghe sembrano produrre una tale quantità di oli convertibili che il costo diventa competitivo con quello attuale del petrolio.
Anche James Liao, della University of California, propone un metodo alternativo. Invece di tenere a stecchetto le alghe, rimpinziamole di nutrienti. In questo modo si induce una vera e propria eutrofizzazione. Le alghe diventano fonte di cibo per batteri, come gli E. coli, che le mangiano, le digeriscono e producono a basso costo etanolo e butanolo.
Invece delle alghe è possibile utilizzare cianobatteri (chiamati, impropriamente alghe blu). George Church, un genetista della Harvard Medical School di Boston, ha trovato il modo di modificarli geneticamente affinché producano i tipi di idrocarburi desiderati.
Tutto questo e altro ancora è in uno stadio più o meno avanzato di ricerca. Occorreranno anni prima che le idee si trasformino in applicazioni commerciali. Tuttavia un fatto sembra certo, le alghe e altri organismi fotosintetici, daranno un forte contributo a riscrivere il paradigma energetico. Da dove traiamo questa certezza? Beh dal fatto che molti stanno investendo molti soldi.
C'è il pubblico: il Department of Energy degli Stati Uniti ha appena creato un consorzio nazionale per estrarre biocombustibili dalle alghe, dotandolo di risorse per 44 milioni di dollari. Ma, a quanto pare, ci sono soprattutto le imprese. La Sapphire Energy ha appena ricevuto 104 milioni di dollari dal governo federale per produrre energia pulita dalle alghe, cui si sono aggiunti 100 milioni di dollari di investitori privati.
Ma che la ricerca sia promettente lo dimostra soprattutto il fatto che la Exxon Mobil, una delle grandi multinazionali che controllano il settore dell'energia fossile, ha investito 300 milioni di dollari in un "progetto alghe" portato avanti insieme alla Synthetic Genom¬ics di La Jolla, in California, nel tentativo di unificare ricerca energetica e ingegneria genetica e riposizionarsi nella nuova era ineludibile e incipiente delle fonti rinnovabili e "carbon free".

FONTE:  http://www.greenreport.it/

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