martedì 7 settembre 2010

Rosarno milionaria. Un centro per integrare gli africani ribelli

Ascolta il post Listen to this Page. Powered by Tingwo.co
“Integrazione: completamento di qualcosa attraverso l`aggiunta di ciò che è mancante, necessario o serve a migliorare”. Sabatini – Coletti, Dizionario della lingua italiana
ROSARNO (RC) - Chiariamo un punto. L’idea secondo cui i migranti di Rosarno sono “un serbatoio di braccia a cui spesso accede la malavita organizzata” non è soltanto falsa. E’ offensiva nei confronti di centinaia di ragazzi che non hanno mai fatto da manovalanza alle ‘ndrine, preferendo il durissimo lavoro nei campi. Al contrario, gli africani si sono ribellati due volte contro la violenza mafiosa, collaborando in almeno cinque occasioni con le forze di polizia e la magistratura (la rapina del dicembre 2008, i “fatti di Rosarno” di gennaio 2010, le tre inchieste sul caporalato, tra cui quella denominata “Migrantes”, rese possibili dalla collaborazione e dalle testimonianze dei lavoratori stranieri).

Eppure, l’idea del “serbatoio di braccia” è contenuta nel comunicato ufficiale del PON Sicurezza (www.sicurezzasud.it) che presenta il progetto del “Centro di formazione per gli immigrati” – due milioni di euro di stanziamento del Ministero dell’Interno e dell’Unione Europea -, giustificandolo come un argine allo sfruttamento. “Il centro di formazione sarà costruito interamente” ci spiega Rosario Fusaro, uno dei tre commissari prefettizi che reggono il Comune. “L’edificio sorgerà ex novo, due piani fuori terra. La fabbrica esistente” – la “Beton Medma” confiscata al clan dei Bellocco – “sarà demolita, il sito ristrutturato. Il progetto definitivo è in via di approvazione, prevede circa 60 posti letto nella foresteria. Contiamo di completare i lavori in un anno”.
A ottobre dovrebbe essere avviato il cantiere, giusto l’inizio della stagione agrumaria, che coincide con l’autunno e l’inverno. Da due decenni, i raccoglitori stranieri arrivano nella Piana, molti provengono dai campi di pomodori in Puglia e Basilicata. Anche quest’anno avranno il solito, banale, problema: “Dove dormiamo, questa notte?” Con quello che guadagnano fanno fatica a pagare un affitto. “Sono 60 euro al mese per un posto letto nelle case in centro”, ci dicono alcuni ragazzi. “Le leggi sono molto restrittive”, ribadisce Giuseppe Pugliese dell’Osservatorio Migranti. “Chi affitta case agli stranieri rischia tanto. Gli africani devono anche mandare i soldi a casa, a differenza dei comunitari che in genere si spostano con le famiglie.”
Lo scorso anno c’erano almeno 2500 stranieri nella Piana. Distrutta dalle ruspe la “Rognetta”, sgomberata un anno fa la “Cartiera”, chiusa da mesi l’“Opera Sila” (tutte fabbriche in disuso), sgomberate nelle scorse settimane anche le piccole masserie, rimane irrisolto il problema dell’accoglienza. In realtà, la legge dice che spetta ai datori di lavoro, ma non è applicata da nessuna parte, figurarsi nella Piana del lavoro nero e dell’illegalità diffusa. “Ognuno deve trovarsi dove stare, non siamo un tour operator”, chiarisce Fusaro, che ci tiene a delimitare la competenza territoriale dell’intervento. Solo una parte dei migranti ricade nel territorio rosarnese. “Noi cerchiamo di fare formazione e avviamento al lavoro. L’ospitalità non è nostro compito. E poi non è semplice risolvere dall’oggi al domani, per venti anni è mancata la programmazione. Il lavoro nero? Non dipende noi, ci sono gli organi competenti che se ne devono occupare, anche se tutti devono concorrere a eliminare l’illegalità diffusa”. “Il problema principale nei territori resta l’accoglienza, nessuno parla di una sistemazione”, risponde Pugliese. “Rimango perplesso, sento parlare solo di corsi di formazione”.
Ma gli africani torneranno a Rosarno? “Non abbiamo previsioni su quanti ne arriveranno”, dice Fusaro. “In questo momento sono pochi. L’importante è che non si creino le situazioni che hanno dato origine ai fatti dell’anno scorso”. “Abbiamo ricevuto diverse telefonate di africani che vogliono venire a lavorare”, ci racconta un produttore. “Ma adesso siamo noi ad avere paura. Dei controlli, degli arresti. Non assumeremo nessuno che non sia in regola”.
A lavori terminati, il centro sarà diviso in tre grandi spazi. Ci sarà la sezione per l’intrattenimento e il supporto scolastico dei bambini, l’area degli sportelli e quella per la formazione professionale con aule e laboratori. Il primo è poco utile (i braccianti non vengono con le famiglie e si fermano solo d’inverno), mentre da due anni sono aperti gli info point del progetto ASSI della Provincia. E veniamo all’inserimento lavorativo. Si agisce a valle e non a monte. Come se il problema fossero i braccianti - da formare attraverso i corsi - e non un sistema economico prosciugato dalla ‘ndrangheta, dominato da sciacalli che si sono arricchiti con le truffe, drogato dai falsi braccianti, bloccato dai “monopoli ambientali” dei criminali che impediscono lo sviluppo. Annientato dal “darwinismo sociale” che vede nel lavoratore un limone da spremere, nel fisco un vampiro da ingannare.
La paura e il sospetto
“Con l’integrazione e l’inserimento lavorativo si migliorano le condizioni di vita degli stranieri e si combatte quel senso di xenofobia nei cittadini che nasce dalla paura e dal sospetto”, spiega il comunicato ufficiale. Secondo il dizionario della lingua italiana, il termine “integrazione” indica il “completamento di qualcosa attraverso l’aggiunta di ciò che è mancante”. Oppure “l’assimilazione di gruppi in una comunità”. E’ evidente che la ribellione degli africani è stata possibile solo grazie allo scarso livello di integrazione. “Se gli hanno sparato solo alcune persone, perché se la sono presa con tutto il paese?”, ci chiese una signora, nella corsia dell’ospedale di Gioia Tauro, mentre nella stanza accanto c’erano quattro africani con le gambe piene di pallini di piombo. Erano i giorni dei “fatti di Rosarno”. Il 7 gennaio del 2010, alcuni sconosciuti avevano sparato contro tre lavoratori africani. La rivolta dei migranti causerà la reazione dei violenti del paese: una feroce caccia all’uomo, decine di feriti, migliaia di uomini di colore sgomberati in poche ore. Gli africani avevano comunque scelto la soluzione collettiva (la ribellione dell’intera comunità) per affrontare un problema individuale, contrariamente alla cultura del luogo dove un fatto analogo sarebbe stato risolto con una vendetta privata.
La rivolta non ha avviato la stagione dei progetti, ha solo incrementato le attività. Nel 2007, con un solenne protocollo alla Prefettura di Reggio Calabria si decise di trasformare la “Cartiera” in un centro d’aggregazione sociale. Non se ne fece nulla e per anni gli africani passarono gli inverni dormendo tra i cartoni e sperando –inutilmente -  che qualcuno riparasse il tetto sfondato. Maroni stanziò 200 mila euro utilizzati per i box doccia dell’Opera Sila. Un piccolo intervento senza esito, non paragonabile a quanto fatto dalla società civile con mezzi di gran lunga inferiori. Anche la provincia di Vibo Valentia ha presentato nei mesi scorsi un progetto per l’integrazione, sempre con il PON, cui parteciperanno piccoli paesi in cui è davvero difficile rinvenire presenze significative di stranieri.
C’è un aspetto positivo. Tutto questo, per una volta, è responsabilità di una sola persona: Roberto Maroni. Il comune è stato sciolto per mafia dal 10 dicembre 2008, per due volte consecutive. Nel prossimo novembre, finalmente, si voterà. Finora ci sono stati tre commissari prefettizi, dunque direttamente collegati al ministero dell’Interno, da cui dipende il PON Sicurezza. Gli stanziamenti non sono il frutto dell’azione di politici calabresi, ma del leghista pronto ad affermare, nelle prime ore della rivolta di gennaio, che il problema era “il degrado prodotto dai clandestini”. In realtà i migranti erano un argine al degrado. Ma quelle furono le parole che legittimarono le ronde, gli assalti, la pulizia etnica. E’ difficile, ministro, ammettere di aver sbagliato rotta. Ma perseverare può essere ancora peggio.
Scontro etnico?
Il problema è molto semplice: l’agricoltura del Sud si basa sul lavoro stagionale dei migranti, i quali però sono costretti a vivere in condizioni drammatiche. Dopo la rivolta, i media hanno raccontato qualunque paese che ospita un po’ di migranti come un’altra Rosarno, una potenziale Rosarno, una nuova Rosarno. Il paese della Piana poteva diventare il simbolo della ribellione contro la violenza mafiosa e lo sfruttamento bestiale, invece è diventato sinonimo di tensioni interrazziali che possono sfociare nello scontro.
La “sindrome Rosarno” ha inciso profondamente sugli interventi nelle campagne del Sud. A Nardò, in Salento, ha convinto l’amministrazione comunale a ristrutturare una masseria affidata a un’associazione e utilizzata come centro d’accoglienza per i raccoglitori di angurie che operano in agosto. A Palazzo San Gervasio, invece, il comune ha deciso di non aprire lo stabile – tra l’altro un bene confiscato – che per anni è servito a dare rifugio a un migliaio di migranti impegnati nella raccolta del pomodoro, al confine tra le province di Potenza e Foggia. Ad Alcamo, la vendemmia di settembre la fanno i maghrebini, e spesso si sono ritrovati a dormire nelle strade del paese in provincia di Trapani o nei giardini pubblici. Da un paio d’anni, il sindaco ha fatto impiantare una tendopoli al campo sportivo.
In tutte le campagne è emergenza, non c’è coordinamento e neppure confronto tra le varie esperienze. Il governo è assente, gli enti locali improvvisano. Eppure, non si tratta di profughi ma di semplici lavoratori. Basterebbe dare loro un documento, come accaduto per bulgari e rumeni con l’ingresso nell’Unione Europea, per rendere la loro situazione meno precaria, ed eliminare la ricattabilità strutturale creata da leggi discriminatorie. Caporalato e salari da fame sono le vere emergenze, ma combatterle non porta voti, né soldi. Meglio dunque interventi a pioggia, stanziamenti assistenziali, provvedimenti d’emergenza, progetti milionari.

0 commenti:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...