Sono 25 mila (pochi rispetto alla media europea) e molti finiscono per lavorare all´estero
Con la nuova riforma sono destinati ad avere sempre meno peso dentro gli atenei

Nella gerarchia accademica, sono la fascia intermedia tra i gironi dei dottorandi, dottori di ricerca, "borsisti" e "assegnisti" (i "precari" dell´università) e l´empireo dei professori. Sono circa 25 mila (pochi in rapporto alla popolazione attiva, rispetto alla media Ue). Navigando nei blog in cui si scambiano esperienze e doglianze scopriamo una vita di grossi sacrifici, innanzitutto economici. I ricercatori guadagnano poco. Questo, oltre a mortificare socialmente e mettere a dura prova la resistenza di chi svolge un lavoro impegnativo e super-qualificato, riduce la competitività: a queste cifre, i più bravi cercano un posto all´estero, dove si può guadagnare più del doppio. Ma sono soprattutto le frustrazioni e i soprusi di un sistema di fatto feudale (magistralmente Nicola Gardini nel libro I baroni, Feltrinelli) ad avvelenargli l´esistenza. Molti abbandonano: sopravvivere richiede una capacità di adattamento e di sopportazione molto elevata. Certo, il lavoro intellettuale ha bisogno di volontà, autodisciplina e spirito di sacrificio. Ma siamo certi che tacere e adattarsi siano le virtù migliori da promuovere in figure la cui attività principe, la ricerca, richiede originalità di visione e spirito critico? Per cui ben vengano, i fermenti di questi mesi. Perché l´università è assai poco democratica: i ricercatori rappresentano il 40 per cento del personale di ruolo, ma non hanno quasi voce in capitolo nelle scelte strategiche di un ateneo. Con la riforma Gelmini andrà peggio: cda e senato accademico perderanno gli attuali caratteri di rappresentatività, lamenta Piero Graglia, un ricercatore come tanti, uno dei coordinatori della "Rete 29 aprile" che censisce e dà voce alle posizioni di ben 15 mila ricercatori in tutta Italia, impegnati per ovviare a questo deficit di democraticità e contro la riforma Gelmini.
Ma servono davvero i ricercatori? Se sparissero, cosa accadrebbe? Per prima cosa, la paralisi della didattica universitaria. Non è un esercizio di fantascienza: per protesta i ricercatori minacciano di astenersi dall´attività didattica, mettendo a rischio l´anno accademico e interi corsi di laurea in molti atenei. Si limitano ad applicare la legge: anche se molti studenti li chiamano "prof", sono solo "dott" (vedi box). Ma la didattica universitaria oggi è "drogata", il massiccio ricorso alle docenze dei ricercatori (circa il 30 per cento degli insegnamenti), spesso non retribuite, sempre sottopagate, è coinciso con l´esplosione dell´offerta formativa nell´università del "3+2". Spesso non c´è una maggiore articolazione dei saperi, specchio dell´accresciuta complessità del presente, ma doppioni e frammentazione che rispondono piuttosto a logiche di marketing («e di "bulimia baronale"», aggiunge Graglia). I ricercatori hanno sempre insegnato: per formarsi, per senso del dovere, passione, prestigio. La riforma Moratti ha messo una pezza (vedi box), ma è iniquo che l´università speri di sopravvivere sfruttando i ricercatori in veste di professori, senza che ne abbiano lo status né la retribuzione. La nuova riforma non affronta questo nodo, e nemmeno razionalizza l´offerta formativa. L´astensione dalla didattica, che preoccupa ministero, presidi e rettori, dovrebbe funzionare (questo è l´intento dei ricercatori) come black out, che mette a nudo un deficit di energia strutturale: occorre far prendere coscienza al governo e a tutti i cittadini che il sistema veleggia verso il collasso. I pensionamenti nei prossimi anni lasceranno scoperte molte cattedre. Non ci sono soldi per rimpiazzare tutti i professori. Si può dissentire col metodo della protesta, ma l´emergenza che impone all´attenzione del pubblico è reale.
Nelle università statali la necessità di pagare gli stipendi e tenere in piedi la struttura in presenza di forti tagli peggiora la situazione di cronica carenza di fondi per la ricerca. Un black out qui non darebbe esiti plateali: l´alta ricerca è un´impresa che dà i suoi frutti nel lungo periodo. Ma è strategica per il paese. Per capirlo, basta dare un´occhiata al recente Rapporto sulle biotecnologie in Italia (tipico settore research-intensive) dell´Ice: a dispetto della crisi, questo settore nato solo 10 anni fa prospera e compete a livello internazionale (grazie ai privati: anche qui l´investimento pubblico è insufficiente). L´importanza dell´alta ricerca non sta solo nel suo ritorno in termini economici: seppure assai decaduta, l´università resta pur sempre la fucina del progresso scientifico, del pensiero che si arma per decodificare una realtà in veloce cambiamento e agire di conseguenza. Non si può imputare alla riforma Gelmini la cronica povertà degli investimenti, né i guasti di 20 anni di riforme universitarie monche e miopi, da destra e sinistra, che non hanno intaccato i vizi strutturali del sistema. Questa riforma però mette ulteriormente a rischio e sotto pressione il capitale umano, la risorsa più preziosa dell´università, e non solo perché taglia i fondi. I nuovi ricercatori saranno a tempo determinato. Poi dipenderà dalla copertura finanziaria. Elevato il rischio che molti siano bloccati o espulsi dal sistema. «I 25 mila ricercatori di oggi, e quelli a tempo determinato del post-Gelmini, si troveranno a competere per sempre meno posti da professore associato. Una "guerra tra poveri" a fronte di un potere baronale intatto, che avrà in mano come sempre i concorsi», spiega Graglia. La "Rete 29 aprile" ragiona piuttosto sull´introduzione di un ruolo unico per tutti, professori e ricercatori, articolato in livelli: progressione per maturità scientifica e anzianità, valutazione triennale su produzione scientifica e didattica. Se il professore lavora male niente avanzamenti, ultima ratio allontanamento dall´università: «Per generare vera competizione e uno choc generazionale, anziché una guerra tra poveri».
Le proteste dei ricercatori pongono problemi da risolvere nell´interesse di tutta la società, che sarà danneggiata se l´università, impoverita e ridotta a un super-liceo, smetterà di essere la fucina di innovazione, cultura e pensiero che dovrebbe essere.
Repubblica, MERCOLEDÌ, 21 LUGLIO 2010
FONTE: http://www.controlacrisi.org/
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