Le piante coltivate per la ricerca vengono bruciate. La legge italiana ne vieta l’uso per qualsiasi scopo. Mentre i ricercatori del Drug Policy Commission in Inghilterra, con un appello al governo, affermano che le calorie accumulate con il ‘cibo spazzatura’ non si bruciano facilmente e fanno più male di una ‘canna’.
In Italia, la ricerca avanza come ci racconta Gianpaolo Grassi, primo ricercatore al Cra-Cin, della sede distaccata di Rovigo, unico responsabile di uno studio che ha ottenuto l’Ok del ministero della Salute.
Come nasce la vostra ricerca sulla Cannabis e come siete giunti ai suoi effetti benefici per uso medico?
“Abbiamo ripreso a studiare la canapa dal 1995, a seguito di un primo triennio di ricerche finanziate dal ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali”, racconta Gianpaolo Grassi primo ricercatore del Cra-Cin. “Il progetto è stato poi rinnovato per altri tre anni e lo scopo era quello di recuperare le varietà italiane di canapa e renderle compatibili con le regole indicate nei regolamenti europei che all’epoca garantivano un contributo per l’agricoltore pari a 1.300.000 lire per ettaro. Per ottenere i contributi era necessario selezionare le varietà in modo che non producessero un livello della sostanza psicotropa vietata, tetraidrocannabinolo (THC) superiore allo 0,3%. Limite che poi è stato ulteriormente abbassato allo 0,2%. Nel corso degli anni successivi, terminato il progetto ministeriale, ho avuto modo di collaborare con aziende private, progetti europei, progetti regionali e fortunatamente sono arrivato sino a oggi potendomi garantire quasi l’autosufficienza di fondi lavorando pressoché esclusivamente sulla canapa”.
Nascono 150 piante ogni tre mesi, circa 4 kg di foglie e fiori. Queste piante devono essere allevate in ambienti sorvegliati e in condizioni controllate perciò si lavora quasi esclusivamente in serre o stanze attrezzate. Il loro numero può variare in funzione dei programmi, ma di solito non superano il migliaio.
Come siete arrivati a studiare la Cannabis per uso medico?
“Nei primi anni ci siamo concentrati prevalentemente sugli usi industriali rivolti al settore tessile. Viste le difficoltà a far ripartire una filiera complessa come quella della canapa tessile, io in particolare ho rivolto la mia attenzione alla selezione di nuove varietà di canapa che avessero usi diversi, come quello alimentare, edilizio e in genere per la produzione di fibra tecnica. Sino al 2000 tutte le varietà italiane erano dioiche, cioè piante solamente femminili, e metà interamente maschili. L’innovazione introdotta è stata quella della selezione di varietà monoiche adatte ai nostri ambienti di coltivazione e più versatili nella loro produzione. Una pianta monoica produce sia fiori maschili sia femminili e ciò determina nella popolazione una maggiore uniformità di maturazione e una più elevata produzione di seme. Queste varietà vanno utilizzate in pieno campo e perciò inizialmente abbiamo operato nella nostra azienda agraria e ciò è ammesso proprio dai regolamenti europei che consentono in tutti i Paesi europei la coltivazione delle varietà autorizzate che hanno un basso livello di THC.
Ma poi la ricerca si è evoluta. E ora lei studia gli effetti terapeutici.
“Da circa una decina di anni ho incominciato ad avventurarmi anche nel lavoro di selezione di piante che avevano la caratteristica di produrre singoli cannabinoidi. L’interesse iniziale era legato a poter affrontare con cognizione di causa la selezione di normali varietà per uso agricolo, ma poi ho incominciato a capire che sorgeva sempre più evidente l’esigenza di avere varietà che producessero principi attivi cannabinoidi a elevate concentrazioni per l’uso medico. Mi aiutò la partecipazione a un progetto europeo che esigeva di poter studiare combinazioni di diversi cannabinoidi per la cura di emicrania e artrite reumatoide e solo noi in Italia, anche grazie alla collaborazione con l’Università del Piemonte Orientale e in particolare con il Prof. Appendino, eravamo riusciti a superare gli olandesi che si erano da sempre focalizzati unicamente sulle varietà a elevato THC.
‘Canapa’ fa venire in mente cappelli, sacche o tovaglie, oppure anche le corde usate nella vela.
“Utilizzando solo un nome non è possibile distinguere adeguatamente gli innumerevoli tipi di questa pianta. Ciò che la caratterizza principalmente è la composizione chimica che se presenta elevati livelli di THC allora può essere individuata con il termine messicano Marijuana. Io preferirei si usasse più diffusamente il termine Cannabis quando si vuol distinguere i tipi destinati all’impiego medico e canapa industriale per l’impiego in campo agricolo. Il termine Marijuana lo lascerei ai ragazzotti che ne vanno matti per un uso ‘alternativo’.
Qual è la variante della pianta per uso medico?
“Quando lo scopo per cui la pianta è coltivata è quello di aumentare le sue proprietà terapeutiche, è necessario far accumulare nella pianta il livello più elevato possibile dei suoi metaboliti secondari che sono quelli che hanno l’attività farmacologica. Per far questo, se impediamo alla pianta di destinare le sue energie alla produzione dei semi, abbiamo un maggior accumulo di metaboliti e perciò anche di cannabinoidi. Questi hanno proprietà sia psicotrope sia antinfiammatorie, cicatrizzanti, stabilizzanti il sistema immunitario e soprattutto regolatrici del nostro sistema endocannabinoide.
La parte della pianta in cui i metaboliti si concentrano è il fiore, ma sono anche presenti nelle foglie a concentrazioni più basse. Di solito si seleziona e si usa il fiore perché si ricerca e si consuma la parte più ricca di principi attivi, ma se si intende ottenere degli estratti, tutte le parti aeree tranne i semi e i fusti, possono essere utilizzati”.
Se la Cannabis è efficace come medicinale perché allora non viene autorizzato l’uso negli ospedali o a medici che vogliono darla ai propri pazienti? Qual è il problema? Qual è lo scalino da superare?
“In primo luogo è molto scarsa la conoscenza da parte dei medici delle proprietà e modalità di impiego dei derivati della Cannabis. Posso azzardare anche dei numeri e ritengo che più del 90% dei medici non conosce a quali dosi utilizzare i cannabinoidi e per quali patologie potrebbero essere utilmente impiegati. Ricevo spesso le richieste di studenti di poter svolgere la tesi presso il nostro centro che non ha istituzionalmente il compito di insegnare, ma che è uno dei pochi che può soddisfare l’interesse degli studenti. Credo che siano le difficoltà imposte dalla legge sugli stupefacenti (309/90) e dall’operare in ambito universitario con questa pianta e con i prodotti psicotropi che inneschi questo meccanismo perverso e difficile da cambiare. Se i medici non sanno come utilizzare i cannabinoidi, i pazienti non saranno curati. Inoltre, solo negli ultimi 10 anni le ricerche e i test clinici sono stati eseguiti prevalentemente con prodotti standardizzati e tali da fornire risultati affidabili”.
Come dovrebbe assumere la Cannabis un paziente? Fumandola?
“Nessun medico con coscienza e competenza suggerirebbe l’assunzione attraverso il fumo della sigaretta di Cannabis. I principi attivi possono essere inalati attraverso un apparecchio chiamato vaporizzatore che mediante il solo riscaldamento di una dose di fiore essiccato, evitando la combustione, permette di vaporizzare i principi attivi. Al paziente si evita di inalare i prodotti derivati dalla combustione del materiale vegetale che non sono tanto diversi da quelli derivati dalla combustione del tabacco. Altro modo di assumere i derivati della Cannabis è quello dell’ingestione di capsule, alimenti additivati di cannabinoidi, l’uso di supposte, l’applicazione di cerotti o come avviene per il primo farmaco ottenuto con estratti naturali della pianta, attraverso l’assorbimento di un estratto alcolico spruzzato nella mucosa della bocca”.
Ci sono case farmaceutiche che vi hanno chiesto di poter produrre medicinali a base di Cannabis?
“Si, una delle due autorizzate dal ministero della Salute a produrre farmaci psicotropi da piante”.
Che costo avrebbe un farmaco a base di Cannabis? E che costi ha la vostra ricerca?
“Come ogni nuovo farmaco che viene registrato e distribuito seguendo le pratiche previste dalle norme europee arriva a costare milioni di euro. Ovviamente le case farmaceutiche per continuare a operare devono recuperare questi ingenti costi, perciò come qualsiasi altro farmaco, il costo di produzione dei principi attivi è insignificante e talvolta costa meno della confezione. Così anche nel caso della Cannabis e dei cannabinoidi la produzione dei principi attivi potrebbe costare molto poco e se prendiamo come esempio quello più pragmatico seguito dall’Olanda, il costo di 1 grammo che contiene il 19% di THC è di circa 10 euro al grammo. La dose efficace per il controllo di un sintomo doloroso potrebbe essere di circa 10 mg perciò circa 0,5 euro a dose, contro 10-20 euro/dose del farmaco registrato.
Noi potremmo produrre 1 grammo di materia vegetale uso farmaceutico a circa 4-5 euro e alle nostre condizioni attuali saremmo in grado di produrne 4-5 kg ogni quattro mesi.
Secondo lei, perché la morfina sì e la Cannabis no?
“Esclusivamente perché i medici conoscono l’efficacia della morfina e non quella dei cannabinoidi. Anche le leggi hanno il loro peso e in questo caso si è scelto di demonizzare molto di più la seconda paventando molto di più il rischio di abusi. Io non credo che i morfinomani siano aumentati perché negli ultimi tempi negli ospedali è più semplice prescrivere gli oppiacei”.
Qual è il suo obiettivo? La sua speranza come scienziato?
“Vorrei che si concentrassero gli sforzi al fine di fornire alla classe medica il maggior numero di strumenti e di informazioni utili per fare meglio e più liberamente il loro lavoro, senza fargli rischiare la galera e senza costringerli a dire ai pazienti che non sanno come trovare una soluzione per il loro problema o dolore”.
di Mariaceleste de Martino – fonte: televideo.rai.it
titolo originale: “Supposte e cerotti alla Cannabis”
fonte : http://www.enjoint.info/
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