domenica 6 marzo 2011

Le convinzioni sbagliate dell’Europa

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La validità di un concetto di analisi economica dimostra come un teorema politico costruito senza tener conto del peso delle diverse variabili possa rischiare di divenire un gioco a somma negativa
Dagmawi è uno Shadow Price
COSA lega un concetto chiave dell’economia pubblica ed un lungometraggio indipendente sulle sofferenze legate all’immigrazione clandestina verso l’eldorado europeo? Apparentemente, nulla. A meno che non si abbia avuto la fortuna di vederlo, quel lungometraggio, ed a meno che non si abbia avuto la sventura successiva d’informarsi sulle pratiche che esso denuncia. In un momento in cui l’altra faccia del Mediterraneo sta provando a scrivere una nuova pagina della propria storia, anche l’Europa ha il dovere politico oltre che morale di interrogarsi sui propri errori.
La Memoria dei Migranti e la Razionalità dell’Economia 
‘Come un Uomo sulla Terra’ è un documovie del 2008, prodotto da una ONG italiana, Lunaria, in collaborazione con Amnesty International. E’ ideato e girato da Dagmawi Yimer, un etiope richiedente asilo stabilitosi da qualche anno a Roma. Il suo racconto, partendo dalla facoltà di giurisprudenza di Adis Abeba, dove egli studiava, si dipana lungo le rotte tracciate dai migranti, tra deserto e mercanti di uomini, passaporti falsi e soprusi senza fine.

Una corsa alla sopravvivenza verso la speranza, spesso soffocata all’arrivo in Nord Africa, penultimo durissimo ostacolo prima dei barconi stracarichi che solcano quotidianamente il Mar Mediterraneo. In particolare, la pellicola si sofferma sulla Libia, hub principale assieme al Marocco della fiorente industria delle migrazioni e luogo di repressione brutale e durissima per i migranti. Qui, il tentativo di costruzione di una memoria collettiva dell’essere migrante s’interseca con la realtà politica dei rapporti che intercorrono tra il regime di Muhammar Gheddafi e l’apparato politico e burocratico di Bruxelles, svelando contraddizioni ed omissioni evidenti nelle politiche comunitarie di prossimità.
A questo punto è d’obbligo introdurre il secondo elemento di questa trattazione, quello relativo al concetto di shadow price, o prezzo ombra. In economia, un prezzo ombra è un prezzo che riflette il valore d’uso di un determinato bene in termini di utilità per gli individui ed al netto delle eventuali distorsioni provocate da tassazione, costi di transazione ed altri elementi di disturbo. Un prezzo così determinato tende a correggere quelli di mercato in presenza di asimmetrie o di esternalità non inglobabili in modo automatico all’interno dei meccanismi di fissazione dei prezzi market-led.
Ad esempio, il tanto discusso protocollo di Kyoto è un metodo volto alla creazione di un mercato di emissioni di gas inquinanti che punta ad incidere sui prezzi degli output industriali al fine di internalizzare i costi sociali dell’inquinamento. Il protocollo di Kyoto è allo stato attuale largamente disapplicato; tuttavia in ben altre situazioni  il concetto di shadow price, pur non dando vita a formalizzazioni da trattato di economia, è centrale nella determinazione delle ragioni di scambio.
Nel pieno delle rivolte che stanno disintegrando l’assetto politico interno dei nostri più immediati vicini, viene da chiedersi se l’evidente forzatura proposta ad inizio articolo possa aiutarci a fornire una spiegazione efficace delle relazioni pericolose instaurate dall’UE con personaggi come Ben Ali o Gheddafi, a partire  proprio da uno dei temi che ha acquisito una centralità rilevante negli ultimi 20 anni di dibattito euro-mediterraneo, ovvero quello del contrasto dell’immigrazione clandestina.
Relazioni Pericolose 
Proprio il paese al centro di cronache da vera e propria guerra civile, la Libia, è la nazione che più di ogni altra è riuscita a “monetizzare” la sua disponibilità a porsi come argine ai flussi migratori provenienti dall’Africa Subsahariana. Disponibilità petrolifere e pugno duro sui migranti sono state le armi utilizzate dall’elitè libica come grimaldello per uscire dall’isolamento internazionale susseguente alla strage di Lockerbie. Anzi, tra 2005 e 2010, l’abilità politica di Muhammar Gheddafi è stata quella di trasformare addirittura il tema in un viatico che ha favorito nuove opportunità di investimento.
Ne è un esempio la visita dell’ottobre 2010 di una delegazione francese a Tripoli, la quale ha gettato le basi per successivi accordi del valore complessivo di oltre due miliardi di dollari con la Jamāhīriyya. Una delle clausole centrali del protocollo d’intesa riguardava il rinnovato impegno libico nella lotta all’immigrazione e nel contrasto della filiera criminale che lucra su di essa. Anche l’Italia, pochi mesi prima, aveva ospitato Gheddafi in persona, trattandolo da ospite d’onore e consentendogli addirittura il privilegio di piantare la propria tenda all’esterno di Villa Pamphili.
In quell’occasione, oltre a numerosi contatti commerciali, le parti avevano ratificato un trattato d’amicizia che poneva fine alla questione delle riparazioni coloniali, con oltre 5 miliardi di dollari messi sul tappeto dal governo Berlusconi per la costruzione di un’autostrada in terra libica. In cambio il colonnello si era in prima persona impegnato ad intensificare i controlli sulle rotte dei migranti, in particolare incrementando la pratica dei pattugliamenti congiunti italo-libici nel Mediterraneo, già operativi dal 2007.
L’Unione Europea ha  sempre visto con favore questo tipo di approccio diplomatico, seguendo l’idea che la democratizzazione e la sensibilizzazione sui temi dei diritti umani potesse essere favorita da  meccanismi di cooperazione rafforzata atti a stimolare autoriforme dei regimi politici Nordafricani. Sin dalla fine degli anni novanta, gli organismi comunitari si sono mossi seguendo questa linea guida e richiedendo in cambio anche una responsabilizzazione della sponda Sud del Mediterraneo in materia di gestione dei flussi migratori. Come denunciato da numerose ONG, il fattore immigrazione è però ben presto diventato preponderante nelle iniziative per il Mediterraneo, anche a causa della crescente sensibilità dell’opinione pubblica europea nei confronti del tema.
La Perdita della Periferia 
Così, all’alba del 20 febbraio scorso, mentre in Cirenaica ed a Tripoli si intensificavano le proteste del popolo libico e la violenta repressione dei fedelissimi di Gheddafi, in molte cancellerie europee l’imbarazzo, già ai livelli di guardia dopo le sommosse in Tunisia ed Egitto, era salito alle stelle, giustificando il balbettio flebile e talvolta confuso che per alcuni giorni è stato il marchio di fabbrica dell’immobilismo continentale.
Queste rivolte stanno determinando “la perdita della periferia” (come scritto anche da un docente autorevole quale Giampaolo Calchi Novati), determinando la rottura di quella cerniera di stabilità costruita a sud dell’Europa, utilizzando principalmente lo strumento della PEV, Politica di Vicinato Europeo. Un framework comune per “gestire il cambiamento” con politiche di contenimento del danno derivante dalla possibile instaurazione di teocrazie in Maghreb e Medio Oriente, ma anche un luogo dove fortificare le fondamenta fragili di una politica sull’immigrazione contraddittoria e spesso inefficace.
Per anni l’Unione Europea ha investito molto per puntellare regimi per nulla democratici al fine di proteggersi dall’afflusso massiccio di immigrati. Ancora nell’ottobre 2010, i commissari europei agli affari interni e alle politiche di vicinato, Cecilia Maalstrom e Stefan Fule, erano a Tripoli a ratificare il Memorandum d’intesa UE-Libia, definito dagli stessi “una pietra miliare nella lotta al traffico di esseri umani ed uno dei primi passi ufficiali verso il riconoscimento del diritto d’asilo in Libia”. Peccato che il colonnello, neanche due anni prima, avesse asserito che  gli africani di colore non hanno diritto all’asilo politico” perché “dicono solo bugie e menzogne”  e perché “vivono nelle foreste”.
Pur tuttavia, una prima ratifica c’è stata, con tanto di 50 milioni di euro messi sul piatto della bilancia da parte degli organismi comunitari. Così come accordi si sono conclusi con gli altri paesi dell’area, facendo lievitare il budget comunitario in materia di politiche di vicinato ad oltre 2 miliardi di euro l’anno. Una parte non trascurabile di questo fiume di danaro è servita a finanziare progetti di rientro di migranti nel paese d’origine, come nel caso dell’accordo quadro UE-Algeria 2007-2013.
Ma molti di più sono i fondi che l’UE ha messo a disposizione dell’area nordafricana in un ottica di scambio più o meno tacito tra aiuti allo sviluppo e gestione dei flussi migratori. Ad esempio, nella conferenza di Granada tra UE e Marocco del marzo 2010,  la creazione di un’area di libero scambio tra l’Europa ed il paese nordafricano è stata virtualmente vincolata all’adozione di misure che rendano più facile la pratica delle readmissions, ovvero dei rientri sul suolo marocchino dei clandestini entrati illegalmente in Europa dallo stesso stato maghrebino, anche se di nazionalità diversa.
Accordi molto simili sono in fase avanzata di studio in Tunisia ed anche con  paesi meno “porosi” come la Siria l’UE prevede nel prossimo futuro di mettere in agenda una qualche iniziativa. Come se non bastasse, a questi negoziati vanno poi aggiunti tutti gli accordi bilaterali chiusi dai singoli stati membri dell’Unione coi paesi del Nord Africa, dove spesso la ragione di scambio è stata rappresentata da investimenti e prestiti – o apertura dei mercati nazionali ai fondi sovrani, come nel caso libico – contro meccanismi di contrasto e controllo delle migrazioni.
Il Paradosso Europeo
Nel pieno della rivoluzione che sta sconvolgendo il mondo arabo, il re è nudo anche nella vecchia Europa. Una politica dispendiosa, che si relaziona con personaggi torbidi attirando su di sé le critiche di ONG e società civile di entrambe le sponde del Mediterraneo, ma che, sopratutto, sacrifica lo Stato di Diritto sull’altare della realpolitik. Un vero meccanismo di internalizzazione della gestione dei flussi migratori all’interno dei meccanismi di interscambio commerciale dell’area euro-mediterranea, che ha contribuito ad aumentare il valore economico della disponibilità a cooperare da parte dei regimi Nordafricani, provocando purtroppo conseguenti distorsioni del “prezzo” politico ed etico che l’Europa è stata disposta a pagare.
Dagmawi e quelli come lui, arrivati in Europa dopo mille peripezie ed altrettante sofferenze, avranno provato di certo una forte empatia nei confronti dei giovani  protagonisti del “1989 arabo”;  sensazioni meno confortanti invece, avranno avvertito osservando le contraddittorie iniziative  dell’Unione Europea in materia di immigrazione, diritto d’asilo, gestione delle frontiere. Chi riesce a vincere la lotteria dell’asilo politico o del visto lavorativo sarà certamente sottoposto alle tutele della rule of law e del welfare europeo.
Tuttavia, non potrà non serbare dentro di sé il rancore per  essere stato spesso trattato dagli europei stessi come  un problema economico da risolvere, offrendo un prezzo più alto del dovuto -appunto un prezzo ombra- a chi ha avuto forza e scaltrezza necessaria a cogliere al volo questa opportunità, confermando così la validità di un concetto di analisi economica ma anche dimostrando come un teorema politico costruito senza tener conto del  peso delle diverse variabili possa rischiare di divenire un gioco a somma negativa.

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