giovedì 7 novembre 2013

I medici di fronte al conflitto di interesse

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Editoriale
AIFA Agenzia Italiana del Farmaco logoIn un recente articolo, Pellegrino e Relman hanno scritto una forte requisitoria contro la commercializzazione della medicina, la sub-alternità economica delle società scientifiche, per ribadire con autorevolezza, rigore e coerenza la missione essenzialmente morale della medicina e della necessità quindi che i singoli medici e le società professionali, per mantenere una credibilità nei confronti dei cittadini e dei pazienti, ispirino il loro operato a solidi fondamenti etici.
Al giorno d’oggi, argomentano i due autori, sta crescendo la pressione economica sui medici e sui gruppi professionali e sta aumentando il contrasto tra il conseguimento del proprio interesse e il consolidamento dei principi etici. Diventa quindi sempre più attuale il conflitto di interesse che può colpire a tutti i livelli, dal medico generico al grande specialista, dal ricercatore al direttore di una importante rivista, dal presentatore di una breve comunicazione a un congresso regionale, all’opinion-leader che ricava cospicui finanziamenti da cicli di conferenze, dal piccolo gruppo di colleghi alla grande associazione professionale. Anche se i principi etici coinvolgono tutti, in questa sede, faremo riferimento principalmente ai conflitti di interesse che coinvolgono il medico quando, nelle sue scelte diagnostiche o terapeutiche, viene influenzato da giudizi e valori extra professionali.
In termini generali, possiamo dire che si ha un conflitto di interesse “quando ci si trova in una condizione nella quale il giudizio professionale riguardante un interesse primario (nel nostro caso la salute di un paziente) tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario (guadagno economico, vantaggio personale)”. Questa definizione esprime il concetto che il conflitto di interesse è una condizione, non un comportamento; non c’è bisogno che il giudizio del professionista sia influenzato in modo evidente da altri interessi estranei al suo mandato principale, né che il suo comportamento condizionato arrechi danno al paziente, è sufficiente che esista un legame, che potrebbe comprometterne l’indipendenza. Per distinguere diversi livelli di gravità e di possibile influsso negativo sull’indipendenza scientifica e culturale del medico, vengono anche distinti i conflitti di interesse attuali, potenziali o apparenti.
Va comunque tenuto ben presente che, per quantoriguarda l’integrità morale del medico, ogni conflitto di interesse è dannoso per la sua immagine. Anche il conflitto apparente può comunque ridurre la credibilità nei confronti del paziente e l’affidabilità delle proprie valutazioni.
Quando si pensa a un conflitto di interesse ci si riferisce di solito a quello che coinvolge più frequentemente i medici: un legame di tipo economico con un’industria farmaceutica, ma il legame potrebbe benissimo essere intercorso con un’industria produttrice di apparecchi elettromedicali, di materiale di consumo o di protesi di vario genere o anche con un organismo statale che finanzia una ricerca e impone delle scelte non condivise dal ricercatore. Il conflitto di tipo monetario è certamente quello più evidente, più facile da individuare, più riprovevole, meno tollerato, più spesso dibattuto, e, forse, quello più controllabile. Esistono infatti molte altre occasioni in cui una persona è indotta a fornire una prestazione parzialmente viziata, per ottenere dei vantaggi personali, non misurabili in termini economici. Questo è il caso in cui si manipolano i dati di una ricerca per ottenere la pubblicazione di un articolo su una rivista scientifica (sapendo che i risultati positivi vengono accolti più favorevolmente di risultati negativi) o su un giornale divulgativo (sapendo che certe notizie fanno più colpo di altre), per sostenere le teorie di un collega o per screditare quelle di un contendente, per dimostrare l’infondatezza di un’accusa penale, per favorire il proprio punto di vista su una determinata questione o per contrastare posizioni che si ritengono eticamente non accettabili.
Alcuni autori distinguono il conflitto di interesse (in cui prevale l’interferenza di tipo economico) dal conflitto di obbligazione (in cui prevale l’obbligo morale), in quanto questi due aspetti potrebbero avere una diversa valutazione etica; per semplicità, utilizzeremo il termine conflitto di interesse indipendentemente dal tipo di legame che rende non obiettivo l’atto professionale del medico, in quanto ci interessa soffermarci sul significato di un comportamento viziato, indipendentemente dai motivi che ne hanno determinato la distorsione.

Quale conflitto, quale interesse

Il dibattito sugli aspetti etici del conflitto di interesse si è spesso centrato su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare, invece che su uno spettro di comportamenti non etici che dovrebbero prevedere una scala di interventi. Non esiste infatti un livello soglia oltre il quale si possa parlare di conflitto di interesse, ma esiste un continuum tra un potenziale conflitto che, per la sua modestia non interferisce con il proprio giudizio e un conflitto attuale, economicamente rilevante, che condiziona pesantemente il giudizio. Come esempio della prima tipologia di conflitto, immaginiamo il medico che si accinge a prescrivere un farmaco con un determinato nome commerciale, a scapito di uno contenente lo stesso principio attivo, in quanto legge quel nome ben evidente sul portapenne della sua scrivania. Nel secondo caso, invece, immaginiamo lo specialista che, al momento di decidere quale farmaco prescrivere, ricorda di essere stato invitato recentemente da una casa farmaceutica al congresso mondiale sulla propria specialità dall’altra parte del globo e sa che quella casa ha investito per lui parecchi milioni tra viaggio, iscrizione al congresso e soggiorno. Il conflitto di interesse di tipo economico non può essere eliminato, esiste in ogni società, coinvolge medici a qualunque livello di competenza, di esperienza, di responsabilità, probabilmente con forme e pesi diversi.
In realtà il conflitto di interesse fa parte della nostra professione, del nostro lavoro, della nostra epoca e non può essere abolito con un decreto legge né con un decalogo di norme etiche. Essendo però costretti a conviverci, dobbiamo almeno disporre di regole che evitino una interferenza troppo pesante con la nostra libertà di giudizio, per impedire che sorga il terribile sospetto in chi curiamo, che alcune valutazioni o decisioni siano parzialmente dettate da un interesse personale. Infatti il problema più delicato è che il sospetto di un possibile conflitto di interesse possa minare la fiducia dei pazienti a cui prescriviamo farmaci, esami di laboratorio e test diagnostici. I pazienti devono invece avere la certezza che nessuna delle scelte operate dal medico di loro fiducia è avvenuta sulla spinta di interessi che esulano dalla primaria esigenza di fornire loro la cura più appropriata.

Il conflitto di interesse può condizionare le prescrizioni?

Innanzi tutto dobbiamo riflettere sul fatto che i medici tendono a sottovalutare il condizionamento indotto dalla pubblicità, ritenendolo marginale e ininfluente rispetto alla loro autonoma capacità di giudizio. Purtroppo questa valutazione non è condivisa dai pazienti che sono invece più rigorosi e ci giudicano con molta severità. Gibbons e colleghi hanno valutato il giudizio che medici e pazienti forniscono sugli omaggi elargiti a scopo promozionale ai medici dalle industrie farmaceutiche.
Gli autori hanno preso in considerazione 10 omaggi (una penna, una tazza, un libro, un manuale, un video, un campione di medicine, un coltellino tascabile, un rinfresco, una cena, un viaggio) chiedendo a medici e pazienti di giudicare in che misura ciascun omaggio possa condizionare la prescrizione. I pazienti ritengono che gli omaggi influenzino il giudizio dei medici più di quanto lo pensino i medici stessi e ritengono non appropriato che i medici accettino omaggi dalle industrie farmaceutiche. Del resto, quando alcuni medici di medicina generale dell’area di Boston sono stati intervistati sulle fonti di aggiornamento professionale, ci si è resi conto di una importante differenza tra quanto dichiarato (“Mi aggiorno principalmente da fonti di tipo accademico”) e quanto conosciuto (le informazioni rimarcavano invece gli slogan pubblicitari). Per evidenziare questa differenza, un gruppo di ricercatori aveva scelto due farmaci (un analgesico nel trattamento di dolori di media intensità e un prodotto cerebro-attivo nel trattamento della demenza senile) per i quali era stata notata una certa dissonanza tra i dati della letteratura (scientificamente deboli e non molto favorevoli) e i messaggi promozionali. Ai medici venne dapprima chiesto da quali fonti avessero ricavato le informazioni per una corretta prescrizione di quei due farmaci e in seguito vennero poste delle domande sul profilo di efficacia e di sicurezza dei farmaci stessi. La maggior parte degli intervistati dichiarò di aver tratto le informazioni da fonti bibliografiche e di aver dato pochissimo peso alla pubblicità, agli informatori farmaceutici e agli opuscoli delle aziende. Gli autori si accorsero invece che le conoscenze ricalcavano più i messaggi commerciali che non i dati di tipo scientifico e quindi constatarono che i medici non sono disponibili ad ammettere un legame con sorgenti commerciali, in quanto non si rendono conto di quanto ciò influenzi le loro scelte.
Lo stretto rapporto tra campagne promozionali e modifica delle prescrizioni è stato studiato in tre ricerche. Nella prima, monitorizzando i farmaci prescritti nei 20 mesi precedenti e nei 17 mesi successivi a un viaggio organizzato da una industria farmaceutica per la partecipazione a un congresso internazionale, gli autori hanno verificato un importante aumento nell’uso dei farmaci prodotti da quella industria. Ciò che più ha sorpreso i ricercatori è che tutti i medici abbiano negato di essersi fatti condizionare dall’offerta del viaggio. Nella seconda è stato verificato che la prescrizione di adenosina nel trattamento delle aritmie sopraventricolari ha avuto un’impennata alla fine del 1991, dopo una campagna di marketing da parte dell’industria produttrice. Gli autori, che hanno raccolto i dati di vendita da 670 farmacie ospedaliere, facevano notare che gli effetti favorevoli dell’adenosina erano già noti da almeno dieci anni, non erano emerse di recente evidenze scientifiche che modificassero il profilo del farmaco e che il prodotto era disponibile da tempo nelle farmacie ospedaliere. In questo caso l’evidenza scientifica non era stata sufficiente a determinare l’uso del farmaco, ma soltanto la propaganda commerciale ne aveva sancito l’utilità clinica.
Infine, è stato recentemente verificato che i medici, che avevano fatto richiesta di aggiungere nuovi farmaci nel prontuario ospedaliero, avevano ricevuto finanziamenti dalle industrie farmaceutiche in misura 5 volte maggiore rispetto ai colleghi che non avevano mai avanzato richieste di nuovi farmaci e 13 volte maggiore dalle industrie per le quali richiedevano l’inserimento dei nuovi prodotti.
Tutto ciò non significa che l’informazione proveniente dalle aziende vada automaticamente cestinata quasi come se fosse “farina del sacco del diavolo”; può comunque essere impiegata proficuamente per farsi un’idea del prodotto ben sapendo che ha tutti i limiti della parzialità. L’importante è che l’origine dell’informazione sia sempre chiara e che la pubblicità non sia subdolamente mascherata da articoli apparentemente imparziali affidati a esperti di cui vengono tenuti nascosti i legami economici con l’industria.

È possibile minimizzare l’influenza negativa del conflitto di interesse?

Va ribadito ancora una volta che la presenza di un conflitto di interesse non è sinonimo di disonestà o di faziosità, ma esprime soltanto una potenziale interferenza in ciò che viene detto o scritto. L’onestà e l’oggettività sono virtù che prescindono da legami di interesse e che possono addirittura essere esaltate, quando si constata che un potenziale conflitto di interesse non ha condizionato il giudizio nei confronti dell’interesse primario.
Per garantire un’obiettiva informazione viene consigliato di:

  1. evitare ogni conflitto di interesse che possa essere evitato. Questo è ovviamente l’approccio più semplice e sicuro, ma non applicabile in un numero elevato di circostanze.
  2. rendere pubblici tutti i legami di tipo economico che possono in qualche modo interferire con il proprio giudizio. Questo approccio non facilita in alcun modo la risoluzione di legami, ma garantisce che il paziente possa introdurre un certo grado di criticismo nella valutazione di ciò che gli viene prescritto. La pubblicizzazione è un passo necessario per mitigare gli effetti di un conflitto di interesse, ma, da sola, può essere insufficiente per evitare l’interferenza sulle decisioni. Le norme che regolano la pubblicizzazione possono essere emanate da organismi istituzionali o da società scientifiche, in modo che venga definito entro quali limiti un medico possa essere coinvolto da interessi commerciali senza che sia ragionevolmente minata la sua credibilità e quali accorgimenti debba adottare per limitare i danni di questa intrusione;
  3. creare delle linee guida di comportamento, a cui i medici si debbano attenere. In linea generale si può considerare ininfluente un conflitto di interesse quando alla domanda “Accetteresti lo stesso quell’omaggio, quel finanziamento, quel rimborso spese se i tuoi colleghi e i tuoi pazienti lo venissero a sapere?” viene data una risposta affermativa.
L’American Medical ssociation già dal 1990 ha assunto una posizione molto forte (22) per regolare i rapporti tra i medici e le industrie farmaceutiche, incorporando le affermazioni elencate nel box 1, nel codice etico della professione medica.
In Italia non esistono norme ufficiali per regolamentare il conflitto di interesse. Una legge del 1994 (“Attuazione della direttiva europea concernente la pubblicità dei medicinali per uso umano”) stabilisce i criteri che devono essere seguiti dalle industrie per il finanziamento di congressi in Italia e all’estero e per elargire contributi alle spese di viaggio e di soggiorno agli operatori del settore qualificati, ma non definisce i limiti entro cui devono essere mantenuti i rapporti tra medici e industrie. Per la prima volta nel 1999, l’Ordine dei medici ha inserito nel codice deontologico un articolo (art. 73) sul conflitto di interesse, che però non riguarda le norme che i medici devono adottare nei rapporti con le industrie private, ma soltanto il possibile conflitto che si verifica quando un “medico dipendente o convenzionato con le strutture pubbliche o private [adotti] comportamenti che possano favorire direttamente o indirettamente la propria attività libero-professionale”.
Abbiamo notizie frammentarie sulle iniziative assunte da alcune Associazioni professionali che hanno iniziato a occuparsi dell’argomento.

Conclusioni

I medici sono spesso sottoposti a pressioni di tipo commerciale che possono distoglierli dal loro impegno primario, la cura del paziente, e influenzare in modo indebito le loro scelte professionali nel campo della diagnostica e della terapia. Il pericolo è che tali interferenze possano minare la fiducia dei pazienti, nel momento in cui si rendono conto che alcune decisioni possono essere condizionate da un interesse personale extra professionale. Sottoporre all’attenzione dei medici italiani queste riflessioni non significa demonizzare i rapporti tra industria e medici, ma sfrondarli dai possibili pericoli, insiti in regole poco chiare e non controllabili.
La correttezza e la trasparenza dei rapporti non potrà che giovare alla nostra immagine di professionisti e a quelle industrie che si caratterizzano per elevati livelli di serietà e rigore.

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